ISIDORO DA SIVIGLIA E IL METODO
Isidoro era il vescovo di Siviglia e, durante la dominazione visigota, svolse il suo duro apostolato politico concependo, a beneficio di vaste moltitudini, un’enciclopedia che conteneva l’origine di tutte le parole, e quindi l’essenza di tutte le cose.
Doveva essere un uomo estremamente sognante. Forse, era un uomo mite e coraggioso. Molto energico. Chissà, nel corso della vita, dovette forse imparare faticosamente a tenere a bada l’irrequietezza, e a dare un limite al suo senso dell’assoluto. Può darsi, perché di sicuro era un uomo molto pratico. Mi immagino spesso questa scena: un giorno Isidoro sedeva a corte, mentre Sisebuto, il re poeta, cantava alcuni suoi versi insensati e fuori metro davanti ai nobili visigoti di tutta la penisola iberica. Sembravano tutti sinceramente soddisfatti, e, del resto, alcuni giorni prima Isidoro aveva sentito dire a qualcuno che era ora sorgesse una nuova letteratura, moderna e cristiana, che parlasse al cuore della gente con suggestioni vivaci e la descrizione di quelle emozioni che le persone davvero provano. Una letteratura che esprimesse il nuovo che avanza e il cambiamento. È ora, aveva detto quel qualcuno, di gridare il nostro odio per i filosofi greci e latini (quel qualcuno non aveva usato, però, la parola odio ma si era rivolto contro i filosofi usando un’espressione molto più volgare e sonora). I filosofi, aveva detto quel qualcuno, sono dei malati, che parlano con tono monotono senza badare se la gente li capisce e che fanno di continuo esempi che non c’entrano niente (anche qui, al posto della parola niente, il qualcuno aveva usato un’espressione più colorita). I nobili, quando il re finì di cantare i suoi versi, fecero un lunghissimo applauso. Durante l’applauso, Isidoro fece scorrere nella propria mente alcuni passi del “De senectute” di Cicerone. Cicerone, pensò Isidoro, è, qui dentro, l’unica persona viva. Cicerone, pensò, non è mai morto. E non sono mai morti nemmeno Virgilio, Lucrezio, Ovidio, Orazio, Petronio. Perfino Petronio. Non sono mai morti perché la loro lingua non è morta e non può morire. La loro lingua non può morire, o, meglio, quando lo farà, si trasformerà in una nuova lingua che la prosegue. È l’unica cosa seria a cui lavorare, pensò allora Isidoro: l’unica cosa che un uomo di buona volontà deve fare è questa: è lavorare sulla lingua. Lavorare, ecco, a una lingua che riveli l’essenza delle cose, che ci restituisca le cose, che ci restituisca quell’insieme coerente di cose che chiamiamo realtà. Isidoro, conscio che sono le lingue a fare i popoli e non i popoli le lingue, pensava al suo lavoro sulla lingua come a un lavoro sulla felicità collettiva degli uomini. Il suo lavoro consisteva in questo, nel creare una lingua che ci metta a contatto con la realtà, e che, dunque ci renda felici. Chiunque ancora oggi anche solo sospetti di essere infelice, sospetta, in realtà, che troppa distanza è stata messa fra di lui e la realtà. Sospetta una latitanza letteraria.
Isidoro, nel libro sulle etimologie che ha concepito per renderci felici, per prima cosa ci spiega il suo metodo per lavorare sulla lingua. Isidoro parte dal metodo. Metodo, ci dice Isidoro, in greco significa via. Per seguire una via, ci spiega ancora, è necessaria una certa disciplina, ovvero una certa buona volontà di imparare (discere). È con questa buona volontà, sicuramente legata a una certa dose di incoscienza che perfino noi, oggi, potremmo riguadagnare la felicità.
Testo di Pier Paolo Di Mino
L'immagine è un ritratto ideale di Isidoro da Siviglia, realizzato da Veronica Leffe.