FIGLIE DEL SOLE
In realtà, parleremo ancora una volta, l’ultima, di Kerényi. Non è il caso, ovviamente, di ragionare in questa sede di ogni suo singolo libro, ma è forse necessario dire meglio quanto la sua opera sia fondamentale nel nostro lavoro.
Kerényi compare nel nostro sistema protettivo di spiriti magni come la figura rappresentativa di un metodo. Come scrive Pavese, Kerényi, ci presenta la mentalità mitica non come una conoscenza del passato, o una cronaca antiquaria, o una materia curiosa e bizzarra da sottomettere docilmente alle moderne fantasticherie scientifiche, ma come, piuttosto, una questione inerente al presente continuativo delle nostre esistenze nel loro esondare dai nostri singoli vissuti interinali. I miti non sono mai avvenuti perché avvengono sempre. Per Kerényi, per il metodo che rappresenta, valgono ancora le critiche che gli furono mosse all’esordio della sua carriera: Kerényi oltrepassa il limite imposto dalle discipline, e, guidato non troppo lontanamente da Mercurio, le forza e travolge, affidandosi a un estro arbitrario, viziato dall’immaginazione, avvelenato dal male pensoso della filosofia. Quello dispiegato da Kerényi nel suo lavoro è, al dunque, quel gioco violento del pensiero che coincide con la vita. Filosofare con gli elementi primi dell’immaginazione; filosofare ovvero immaginare. Questo lo rende per noi un metodo, perché Kerényi, alla somma di queste considerazioni, risulta essere, prima di tutto, un grande narratore. Lui per primo confidava a Mann in una lettera che quanto sapeva sul mito, ovvero sull’anima, lo aveva imparato più sui romanzi che sui testi archeologici. Kerényi, con ferma tecnologia poetica, libera le immagini chiuse nei miti, quelle immagini con le quali tutti, passivamente e inconsciamente i più, altri attivamente e in piena coscienza, siamo alle prese ogni momento della nostra vita, giacché quelle immagini sono le unità basilari della vita. E, detto questo, forse, allora possiamo licenziare Kerényi da queste note, citando infine il suo Figlie del sole, un libro con il quale abbiamo contratto un particolare debito per la stesura de Ma l'amor mio non muore primo capitolo de Il libro azzurro. Medea, Circe, Calipso, e poi Pasifae, e poi tutte le altre creature del dio che muore, ci sarebbero state incomprensibili senza questo libro che ci mostra la strana luce felice, quel bagliore di luce che esulta anche di notte, la luce emanata da storie e immagini e pensieri (un’assassina madre perfetta, una regina incapricciata da un toro, una donna di malaffare che fa solo il bene), che sono possibili da vivere soltanto nel tremendo, soltanto in quell’oscenità che chiamiamo con il nome di sacro.
Testo di Pier Paolo Di Mino.
Ricerca iconografica a cura di Veronica Leffe.