NASCERE, UCCIDERE PER MANGIARE, MORIRE
Dal momento che sono stati congegnati in occasioni tanto tragiche, è ovvio che i nostri tre testi di riferimento, le raffigurazioni paleolitiche e l’”Odissea” e la “Commedia”, siano pieni di senso del destino. Il destino di un pianeta che pareva morente sotto i ghiacci era l’ossessione degli uomini del paleolitico.
Il destino dell’uomo su questa terra era l’ossessione dell’Odissea. E il destino celeste dell’uomo era quello di Dante nella sua Commedia. Ma è inutile parlare di come il senso del destino sia accanitamente cercato nei nostri tre esempi, presi come modello eccezionale solo perché è nell’eccezionale che troviamo quanto è nascosto nella normalità: la vita così com’è. Cosa cerchiamo di raggiungere in questo incessante racconto che facciamo vivendo, e che ha come oggetto quel racconto che è la vita, se non grattare via all’aria con non sempre uguale impiego della nostra facoltà immaginativa, della facoltà immaginativa che è in ogni cosa, qualcosa che si possa chiamare, con voce rauca spesso, con voce rotta, con voce esasperata, con voce meravigliata, con voce di animale, con la voce di quel grande animale che è il cielo, con quella delle sue stelle come si riflettono nei mari e negli oceani, con la voce dei mari e degli oceani; cosa cerchiamo se non grattare via qualcosa che sia un destino? Il destino è l’archetipo ovvero il cliché di ogni narrazione perché è l’archetipo ovvero il cliché della vita: nascere, uccidere per mangiare, morire: imprimere una forma notevole a tutto questo. È questa forma notevole che chiamiamo destino, quando vogliamo salvare questa parola, la parola destino, da un vuoto significato spirituale di fatalità, da un vuoto significato funzionale di destinazione. Lo sapevamo bene questo, lo sentivamo negli occhi raggelati dalla vita quando andavamo a caccia, ricordate?, perdendoci appresso alla preda, nella sua mutevolezza, senza odio, pieni di fame, senza disprezzo, pieni di desiderio, capaci di separare per un momento le acque superiori da quelle inferiori, pronti a perderci nel loro imminente ritorno alla confusione, lo sapevamo prima di mettere le sicure a questo gioco, di costruire muri altissimi dietro i quali ripararci come dietro dita piccolissime, prima di fare questa figura, rannicchiati, in ginocchio, a carponi dietro le nostre dita, a occhi chiusi perché così non vedo il pericolo, a occhi chiusi, mentre salmodiamo in preda al terrore, facciamo scongiuri, balbettiamo anatemi senza senso: mentre ripetiamo le nostre opinioni, recitiamo come capi di accusa i capitoli delle nostre leggi, piatiamo giustificazioni non richieste a cui abbiamo dato nomi di filosofie o religioni o ideologie, e, con l’approssimarsi della fine dei tempi, facciamo stancamente cadere dalla bocca marche di merci e, infine, numeri, tanti numeri, tantissimi numeri, dal più alto fino allo zero. Poi viene lo zero. A quel punto, qualcuno, forse è stato il più rapido a contare, forse contava solo per finta, esce fuori dal riparo del suo dito, e la vita può finalmente ricominciare.
L’immagine è un dettaglio di una delle incisioni rupestri che ornano la Grotta dell’Addaura, un complesso di tre grotte naturali poste sul fianco del Monte Pellegrino a Palermo, in Sicilia, rappresenta un gruppo di personaggi identificati come acrobati colti nell’atto di esibirsi o come i protagonisti di un rito sciamanico, la cui realizzazione è databile tra il 20.000 e il 10.000 a.C. Nelle grotte sono state ritrovate ossa e strumenti utilizzati per la caccia, reperti che attestano la presenza dell'uomo a partire dal Paleolitico e nel Mesolitico.
Testo di Pier Paolo Di Mino.
Ricerca iconografica a cura di Veronica Leffe.