SCIVOLANDO SULLA TIBURTINA
E poi ci ritrovammo per strada, non riuscivo a capire come e quando eravamo usciti da quel locale, una ciucca colossale, mi ripetevo che si trattava solo di una ciucca colossale, e di uno scherzo, uno scherzo di cattivo gusto, crudele e volgare, di Ananda, che stava per morire, che aveva messo su questa pantomima per dirmi che stava morendo e farmi partecipare alla sua morte.
Caracollavamo per le strade del mio quartiere, era tutto spento, era tutto fermo, e bucammo le ore ammutinate che precedono l’alba, dovevamo essere più o meno a quel punto della notte, e scivolammo così sulla Tiburtina; e qui: palazzi spogliati dal vento, tettoie sbullonate che sbattevano con forza in cima a qualche terrazzo, nuvole che spiavano da dietro le nuvole, grondaie rotte che scolavano acqua sporca, malumore, pensieri scappati dai sogni della gente addormentata eternamente, macchine spente e fredde a ridosso dei marciapiedi, fanali malinconici puntati contro il cielo indifferente, nemmeno un ubriaco in giro, nemmeno una puttana che rientrava a casa, o qualcuno che ne usciva per andare a lavoro e prendersi il freddo, l’umido, i geloni, il raffreddore, le diverse ferite del quotidiano, portoni rinserrati per non fare entrare la notte e il suo serraglio di bestie cattive, rinserrate però inutilmente perché non c’era nessuna bestia cattiva, niente, non c’era niente, a parte le cartacce arrotolate, le lattine spremute di birra, le merde di cane, le cicche schiacciate, le buste bucate di immondizia, stracci, pezzi di mobili, carcasse di elettrodomestici, alla fine, pensai, sarà questo che rimarrà di noi, pali della luce storti, cabine del telefono scassate, qui e lì alberelli stenti, forse aranci, le luci, a un certo punto le luci, che facevano avanti e indietro attorno a me, o sopra di me, non capivo bene, non vedevo bene, una scritta su un muro, qualcuno aveva scritto con un pennarello fucsia, a grandi lettere, qualcosa di tremendo, in senso letterale, qualcosa che faceva tremare, che faceva venire voglia di mettersi a piangere, di strapparsi i denti dalla bocca e scappare urlando, qualcosa che, però, non riuscivo a leggere per intero, o a capire del tutto: per fortuna!, perché, mi resi conto, se avessi potuto leggere per intero e capire del tutto cosa avevano scritto con quel pennarello fucsia sarei impazzito, altro che paura, terrore, tremore, orrore, sarai impazzito; e poi che altro?: l’orizzonte che ogni tanto si rifletteva ingannevolmente sulle vetrine dei negozi chiusi per sempre o forse da sempre, e, dietro di me, una cortina di fiamme, tutto che andava a fuoco: e si capisce che stavo per sentirmi male; che da un momento all’altro avrei mollato, mi sarei buttato lì a terra, incapace di muovermi, o assolutamente deciso a non farlo, e, allora, Ananda mi prese per un braccio, me lo strinse forte, dai, mi disse, non fare storie, stai dritto, non hai nulla da perdere a stare dritto. Anche la locandiera mi prese sottobraccio. Io, stava dicendo Ananda, non vedo perché, quando tutto è perduto, uno non ne approfitti per dare il meglio di sé. Costa davvero poco, quando tutto è perduto, dare il meglio di sé. La locandiera mi strinse il braccio, in modo tenero, in modo materno, e mi disse: non ti preoccupare, non lo stare a sentire, la paura è paura. Mica ci si può fare niente. Sentii sferragliare un treno. Sentii anche il fischio di un treno. Mi accorsi che eravamo arrivati sul ponte della Tiburtina, sopra la stazione. Sotto di me c’erano i binari che si tagliavano l’un l’altro, ma che erano vuoti, c’erano i casotti, tutti vuoti, le pensiline, deserte, e tutte le cose che ci sono state sempre alla stazione, ma che non erano mai state così vuote. E non c’era nessun treno a sferragliare e fischiare. Prima di prendere la curva per scendere giù alla stazione, alzai il viso al cielo, ma non tanto per farlo, cercavo un appiglio, penso, una via di fuga, o qualcosa da pregare. Lei è la prima e l’ultima, mi stava sussurrando in un orecchio la dolce e cara Siduri, la mia Calipso, Lei è la venerata e disprezzata, prostituta e santa, sposa e vergine, madre e figlia, sterile e dai molti figli, sposata e nubile, madre di suo padre, sorella di suo marito, scandalosa e magnifica.
E la luna era lì, enorme nel cielo, a pochi passi da me, che mi mangiava il viso.
Nell'immagine, una figurazione di Veronica Leffe (tecnica mista su Carta).
Testo di Pier Paolo Di Mino.
Ricerca iconografica a cura di Veronica Leffe.
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