ANANDA SUNYA PARLA DELL'INFINITO
Per raggiungere Luz, stava raccontando ora Ananda, non mi preoccupai più del necessario della direzione da prendere, e mi attenni anzi a una cognizione basilare: non c’era nessuna direzione da seguire.
Capisci?, mi chiese, forse per richiamare la mia attenzione. Si doveva essere accorto che non lo stavo seguendo, che la mia coscienza era del tutto assorbita dalla locandiera, che continuava a sorridere, a portare la mano alla bocca, a gorgheggiare, insomma, a recitare non si sa che parte: era un’attrice magnifica, mi dissi, capace di avere ogni età, capace di essere ogni donna, ogni animale, ogni stellante figura del pensiero.
Ma perché, mi chiesi, questa messa in scena? E mi risposi che tutto questo doveva avere a che fare con la morte. La mia? Quella di Ananda? Queste domande mi spolpavano, mi davano la smania, e mi sentivo tremare con dolore la carne.
Era un’estasi tetanica che mi spaccava il corpo e la mente. La locandiera si alzò, e mi guardò negli occhi, non capii cosa cercasse da me, ma pensai a un giorno d’estate di tanti anni prima, un giorno perfetto, che forse non c’era mai stato, un giorno antico che si ripete in tutti gli inizi, i perenni inizi si ripetono identici dopo la fine: e mi sentii triste e impaurito; e, poi, per un momento, la vidi cambiare sotto il mio sguardo, e mi parve che non fosse più una donna, una fanciulla nel fiore del suo segreto, ma un animale, tremendo, una grande lince, e poi un leone, e una tigre, e una lonza, e quindi mutò ancora, e mi parve una giovenca, una lupa, una cagna a presidio dei crocicchi, e chiusi gli occhi, allora, e pensai alla morte, pensai che io e Ananda eravamo morti, e che la fanciulla, la cara Siduri, la dolce Calipso era la morte.
Aprii gli occhi e la locandiera non c’era più, era andata in cucina, e la sentivo trafficare con le stoviglie. Sono ubriaco, pensai. Ananda mi ha fatto ubriacare, o mi ha drogato. Mi voltai verso di lui. L’importante, stava dicendo, è sapere che non ci si deve mai legare a un solo credo, con il che non sto dicendo che non bisogna avere credi, ma che bisogna averne il più possibile, perché molte sono le strade che portano alla verità, che è una. Ora, mi disse, avvicinati, e guarda. La verità è una, ma la si può ottenere solo se si conosce il tre. Cosa intendo dire? Intendo dire che l’uno, da solo, senza nulla a cui fare riferimento, non è nulla. E lo stesso vale per il due, che sono solo due numeri uno finché non creano un terzo fra loro: il numero tre. Questo è il manifesto segreto matematico che lega ogni cosa all’altra. È in questo rapporto matematico che troviamo l’essenza formale della collocazione del Maschile fra i due Femminili. Il Maschile, infatti, altro non è che quello spirito che deve ora attraversare e ora sorvolare l’anima del mondo e quella individuale, che sono i due Femminili. Capisci?, mi chiese Ananda, e sorrideva, sorrideva anche la locandiera, che ora era tornata e sedeva accanto a me dentro la luce purpurea del locale. Una volta ottenuto il tre, disse Ananda, o, meglio, una volta che il due ha ottenuto il tre mettendolo in mezzo ai due uno, abbiamo tutto il resto della serie numerica, perché il terzo numero ora creato cerca subito un altro terzo numero e insieme fanno il quattro, che è il numero intero della realtà, ossia della perfezione, come dimostra il fatto che la somma dei primi quattro numeri è il dieci.
La locandiera mi carezzò una mano. Mi dissi: non ti voltare, non la guardare. Fu più forte di me. Mi voltai e la vidi mutarsi in fuoco, in lampo, in fata morgana, in aurora, in umido bagliore elettrico, in acqua, in gocce di condensa, in aria, e in nulla, perfetto infinito nulla, e mi chiesi, allora, se dovessi abbracciarla e tenerla stretta, e se, abbracciandola, l’avrei resa mia per tutta la vita o sarei stato io per sempre suo nella morte. Mi resi conto di amarla, e fui triste e impaurito, e chiusi gli occhi.
E dal dieci, stava dicendo ora Ananda, si procede all’infinito, come è insito in tutti i rapporti matematici, essendo l’infinito ciò che si frappone fra un numero e l’altro come motivo della loro unione. Per infinito intendo l’annichilimento. È questo che si impara a Luz. L’annichilimento, ripeté, e io aprii gli occhi, e strinsi la mano alla dolce Siduri, alla mia cara Calipso, e lei intrecciò le sue dita alle mie.
[continua]
Nell'immagine, una figurazione di Veronica Leffe (tecnica mista su Carta).
Testo di Pier Paolo Di Mino.
Ricerca iconografica a cura di Veronica Leffe.
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