CANONE #7 - ELIAS CANETTI
Ma perché mai uno dovrebbe venire al mondo per poi morire?, pensò Canetti, e si sentiva gonfio di sdegno, quasi portato via dalla rabbia: era una cosa irrazionale, insensata, ingiusta, immorale. Nell’aria c’era un profumo: quel profumo sembrava immobile e pieno di pace.
Ma non era così, perché quello era il profumo dei semi che ribollono nel vento: i semi, o elementi primi, o lettere prime che compongono il mondo scontrandosi e commettendo ingiustizia.
Il profumo lo faceva impazzire d’amore, ma, mescolato al profumo, si sentivano dei rumori: i rumori della strada, dei commerci, dei passi che fanno gli uomini quando schiacciano tutto pur di avanzare. Si sentiva il pauroso rumore delle loro guerre, delle loro carestie, delle loro pestilenze: si sentiva la puzza di morte che fanno mescolata al profumo delle cose in sé.
Perché si deve nascere solo per morire?, si chiese di nuovo Canetti. Altrimenti, disse la ragazza, l’essere non sarebbe perenne. A Canetti era sembrata la voce di una ragazza: di una bella ragazza che ride, si prende gioco di te, ti dice parole difficili che tu non capisci, e, meno capisci più ti innamori di lei. Canetti si sentì innamorato: si sentiva rosso e verde per la passione. Ora che la guardava, si accorse che non era una ragazza, ma una bambina. Una bambina dal viso caparbio. Se l’essere non si nega nel divenire, stava dicendo la bambina, non c’è nessun essere. Ecco perché bisogna nascere e morire.
Canetti chiuse gli occhi per non guardarla. Non è così, pensò. Questa cosa non lo convinceva per niente: perché mai, si chiese, l’essere, per essere, dovrebbe divenire? Fosse anche vero, pensò, l’affare sarebbe disgustoso. La bambina continuava a parlare: parlava con quella voce, la voce di una ragazza bellissima, ed era difficile rimanere con gli occhi chiusi. E c’era il profumo: il suo profumo, che era quello delle rose nella valle; il profumo di un nome bellissimo. Chissà come si chiama?, si domandò Canetti. Aprì gli occhi. Allora, pensò, non mi sono sbagliato!
Era proprio una ragazza. Bellissima. Gli occhi neri e grandi, i lunghi capelli che cadevano sulle spalle bianche, e il viso che ricordava quello della luna. Io, disse la ragazza, più che di morire avrei paura di vivere una vita morta. Ecco, disse (e i suoi occhi pungevano con malizia), quello che piace a te è una vita morta: quello che piace a te è di rimanere per l’eternità in questa vita dove nulla si muove, ed è solo pace, e la pace è un deserto, un’estensione di perfetto nulla. Sei proprio come la maggior parte delle persone, che viene al mondo, e subito lo odia, fantasticando sentimenti vaporosi e stanchi: dicono di sentire nostalgia di questo deserto, di questa estensione di perfetto nulla, e praticano, con mente vana e cuore inconsistente, il nulla: è questo il rumore che senti provenire dalla strada, laggiù, il rumore dei passi che fanno gli uomini, quando schiacciano tutto pur di avanzare, il pauroso rumore dei loro affari, dei loro commerci, delle loro guerre, delle loro carestie, delle loro pestilenze: è il rumore del nulla a cui agognano. Questa puzza di morte, disse la ragazza, viene dagli infiniti modi in cui gli uomini istituzionalizzano, con norme e regole e divieti morali, e filosofie e ideologie e religioni, la morte: questa puzza viene dalla loro smania di eternità. Non è vero, avrebbe voluto gridare Canetti, non c’è una sola parola vera. Ma non riuscì a parlare, perché, ora, la ragazza rideva, e diceva: e poi si capisce che tu non accetti di nascere, si capisce bene, perché, in effetti, tu non sei come tutti gli altri, tu sei peggio. Tu sei uno pronto a fare male a molte persone, perché non accetti che tutto si muove, e, se qualcosa si muove, tu la ghermisci, e schiacci, e umili, per dominarla.
Canetti assalì la ragazza, la prese per le braccia e la strinse; ma la ragazza scivolò come una gazzella, ed era una gazzella, e, agile, divenne una vacca, grandiosa e tonda come la verità, e una cavalla, e una lupa, e una tigre, e una gatta che rincorre una gazza, e una gazza, e un’aquila che scala il cielo, e il cielo, e, nel cielo, le stelle, e fra le stelle il sole e la luna: e la ragazza divenne luce, e Canetti perse la vista; e la ragazza divenne aria, e l’aria vento, e il vento gli strappò tutti i pensieri: e la ragazza divenne fuoco, e il fuoco bruciò Canetti, e Canetti allora vide tutto: vide il male che avrebbe incontrato nella vita, i lutti, le orride guerre, la follia degli uomini al potere, e la follia ancora maggiore degli uomini che si asserviscono ai potenti; e vide i suoi amori, e vide quanto male lui stesso avrebbe fatto a chi lo avrebbe amato; e vide le parole, che gli sembrarono sante, e le cose, che erano nude, e pensò che erano tutt’uno. Ne vala pena, si disse, perché io la amo. Gli era tornata la vista. La ragazza gli sorrideva. Ti amo, disse Canetti alla ragazza, che gli sussurrò: e cosa sei disposto a fare per conquistarmi? Canetti ci pensò su, e vide in modo chiaro, e le rispose: io ti amo così tanto che per conquistarti mi farò, come tanti altri prima di me, custode della mutevolezza. La ragazza sorrise, e si alzò: era una nuvola leggera, e Canetti la rincorse, perché lei si muoveva, era rapida e magnifica, e così ora, una davanti e l’altro seguendo, traversavano, graffiandosi, la vita. Mi piace resistere al freddo, pensava Canetti, per guardare la neve, e al caldo per studiare le mosse del sole. Gli mancò il fiato, e si fermò. Ora pioveva. Ma non mi importa, pensò, perché ecco che lei si siede accanto a me, per caso, sulle scale di questa chiesa che crolla. E non mi importa nemmeno se (vado a naso) questo è solo uno di quei sogni complicati che poi mi uccidono. Dalla chiesa usciva (aveva i paramenti viola) l’arcidiacono, e alcune donne (avevano il velo rosso in testa) lo seguivano cantando un treno. Ora ti darò un bacio, gli disse la ragazza, e per te sarà come morire, e sarà così che nascerai. Dalla chiesa uscì anche il dio. Pensi di volerlo fare davvero, ora? pensi di voler nascere e vivere e soffrire e poi morire? Canetti annuì, e si avvicinò alla ragazza. L’arcidiacono urlò, urlarono le donne, urlò il dio: e la ragazza lo baciò.
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Alla fine del passato millennio, che continuiamo a sentire con fiacco accoramento come la fine della nostra civiltà, o addirittura del mondo, Canetti ha tentato di dissolvere, con i mezzi dell’analisi, il vecchio mito che, confitto come una spina dolorosa nelle nostre coscienze appannate, ci ha precipitato nell’inferno normativo e secolare dell’incubo che viviamo da diecimila anni, e infine nel rischio di estinzione; e crearne uno diverso, originario e primario come una lingua ritrovata alla scaturigine della realtà. Una lingua con la quale operare quella traduzione dal sapere alla conoscenza che ci libera dalla morte istituzionalizzata delle nostre esistenze chiuse nelle società normative.
È un ruolo con una precisa designazione sacerdotale quello incarnato da Canetti: il ruolo di colui che respinge la morte. È un apostolato tramandato nei secoli fino a toccare l’istituzione pontificale, e che ha origine nell’incredulità con cui chi vive concepisce la morte. Questa incredulità può sprofondare l’uomo nell’ignoranza e chiuderlo in un mondo che è vana illusione, psicotica proiezione della propria paura (da qui le nostre società normative; oppure darlo alla realtà viva del mondo. Da sempre chi assume questo ruolo sa compiere il cammino aperto fra la morte e la vita, il continuo e il discreto, il sapere e la conoscenza: la sua è una guerra santa contro gli spiriti, o contro sé stesso; un pellegrinaggio senza meta e termine, o la ricerca di un bene che sfugge dalle mani; un infinito naufragare e perdersi, tornare a casa e ripartire. Ed è così che ho rappresentato Canetti, come un sapiente che, prima del mondo, a salvaguardia del mondo, canta per sconfiggere la morte: canta come fanno gli innamorati.
Pier Paolo Di Mino
Nell'immagine, Elias Canetti ritratto da Veronica Leffe.