CANONE #6 - THOMAS MANN
Ci vuole tempo, pensò Mann, miglia e miglia di istanti perfetti, una valle o un deserto di istanti, per trovare la morte esatta: poi la morte cancella il tempo e tutti i suoi istanti: e le cose in sé si rivelano nella loro nuda santità.
Mann si accorse di essere steso in un letto. Per un momento gli era sembrato di camminare in un prato. È un prato, si disse, che si trova in Germania. Ci camminavo da bambino. Mi ci portava mio padre, anche se nel ricordo, ora, mio padre non c’è. Forse erano le nostre vacanze estive, perché l’aria era caldissima, e c’erano molti insetti, intorbidivano il vento, che era leggero, gli insetti gualcivano le foglie degli alberi, e facevano un canto che mi toccava i nervi e il cuore, ed era come un balsamo: sentivo nel sangue una pace lenta, e vedevo gli alberi, uno a uno, non ne conoscevo il nome, e vedevo come insieme facevano il bosco, dietro c’erano le valli, e i monti, e i fiumi, e i mari, e le città, e sentivo che, a proseguire, perdendosi, c’era l’infinito. Mio padre, infine, mi chiamava (basta, diceva, è ora di rincasare), e, tornando indietro, per strada, mi prendeva un dolore, uno strazio, un sentimento di sconfitta che non so come riuscivo a sopportare. Ora, pensò Mann, sentimenti non diversi mi accompagnano mentre faccio la strada al contrario. Aveva sete. Avrebbe voluto urlare per chiamare qualcuno, ma non aveva voce. Si sforzò di capire dove si trovasse. In un letto, pensò. In Svizzera. A casa mia. Si chiese cosa gli stesse succedendo.
Aveva la testa gelata, non riusciva più a sentire i piedi e le mani. Aveva paura. Non era la paura dell’attesa del male, della malattia, dell’infezione chiusa nel corpo. Non era la paura di morire che per tutta la vita lo aveva assediato. Pensò a Einstein. Era morto da pochi giorni, forse una settimana. Poi pensò a Broch. Cercò di ricordarsi da quanti anni era morto: era morto solo e misconosciuto, chiuso nell’amarezza e nella vergogna della sconfitta. Avremmo dovuto fare di più per lui, si disse. Io e Einstein avremmo dovuto fare di più. In qualche modo, pensò Mann, avevamo tutti creduto, creduto più che sperato, che in America fosse possibile trovare un luogo dove proseguire ciò che facciamo da millenni a salvaguardia della perennità del mondo: costruire storie che coincidano con l’essenza della realtà, con la sua trama invisibile di parole e numeri e suoni e immagini; storie interminabili in cui possano vivere per sempre gli elementi primi del mondo e le sue grandi diversioni astrali; i patimenti miseri dell’uomo e la fame appassionata di tutti gli animali; gli avvenimenti sfarzosi che si ripetono nell’anima delle cose fino allo strazio e il gioco regolare e violento che allaccia il caso alla necessità. Al dunque, abbiamo creduto che in America fosse possibile instaurare un rapporto fra letteratura e civiltà. Ma non c’è nessuna civiltà in America, e nessuna letteratura: solo arte di consumo, e tantissima arte per l’arte, estenuanti compilazioni di aggettivi, parole cave e riferimenti colti: l’America è il peggiore dei totalitarismi.
Nel 1952 aveva dovuto riparare in Svizzera. E così ancora una volta l’esilio, e lo strazio dell’espatrio, e l’interruzione del continuo. Come tanti anni prima, quando all’avvento del nazismo era stato ospite indesiderato della Germania di Hitler, ora lo era degli Stati Uniti d’America. Il governo americano lo aveva accusato di essere comunista. Ossia, pensò Mann, mi accusano di non essere conforme allo stile di vita americano, di essere un eretico. Un eretico, pensò, oggi è colui che dubita non tanto di un’idea, che del resto non c’è nemmeno, non c’è nessuna idea nel nazismo o nell’americanismo: un eretico oggi è colui che dubita del linguaggio normalizzato o che non si adegua al linguaggio di marca pubblicitaria che assorbe in sé e dissolve qualsiasi capacità di pensiero. La politica, al dunque, risolta in ideologia, in un linguaggio pulito e corretto a cui attenersi, a un infinito fervorino morale, ecco, ecco cos’è questa fantastica invenzione, lo stile di vita americano, un’ideologia sostitutiva di qualsiasi ideale, di qualsiasi visione politica e civile e culturale. Lo stile di vita americano, il capitalismo americano, lo stalinismo, il fascismo, il nazismo, si disse, sono solo l’ennesima, più dura, è vero, terminale ed esiziale, riedizione del moralismo, dell’oscurantismo, dell’irrazionalismo protestante, trasmesso ai protestanti dai catari, ai catari dai marcioniti, ai marcioniti dagli orfici: digiuni, punizioni e pentimenti, diete, correzione del linguaggio, cancellazione del passato, attesa del futuro inteso come apocalisse, dissolvimento nel presente, e poi lavoro, produrre, lavoro, distruggere tutto: odio per la cultura, odio per la bellezza, odio per l’amore e per la felicità, odio per il corpo, per le donne, odio per il pensiero e per il sapere, odio per l’immaginazione, per l’anima, e per l’anima del mondo, odio per il mondo e per la vita. Solo odio, che viene dalla leggerezza e dall’inconsistenza.
Pensò di nuovo al prato in cui camminava da bambino, in Germania, e, anzi, ora quel ricordo lo vedeva da vicino, perché il gelo della testa era sceso, e gli avvolgeva la faccia, e gli levava via la vista dagli occhi. Si vide mentre, avrà avuto cinque o sei anni, camminava in quel prato, e si perdeva. Mi perdevo, pensò, nel continuo, nella ripetizione dell’identico: chi conosce una simile beatitudine, in cui ogni ente si confonde con l’altro, soffre per il resto dell’esistenza di nostalgia. Nostalgia del paradiso. Non c’era più differenza, si ricordò, fra i miei piedi e i passi che compivano, fra i piedi e la terra che calpestavano: i piedi e i passi e la terra erano la stessa cosa, e la stessa cosa era quanto camminava e strisciava sulla terra, e anche sotto la terra. La stessa cosa erano il sotto e il sopra. Una sola cosa erano la terra e il cielo: il cielo, la terra, quanto era sopra e quanto era sotto la terra, i miei passi e i miei piedi: era tutto una sola cosa. Ho conosciuto a lungo quest’estasi, che mi liberava dall’esistenza, con le sue malattie e i suoi mali, con la morte che si porta dentro, con la sua finitezza; ho conosciuto a lungo questa libertà estrema che aboliva ogni limite e ogni dolore e tutte le sofferenze umane; ho conosciuto, perché in fondo la conoscono tutti, questa libertà orrida e squallida che nega la vita: quanto è vivo, quanto è umano; e ho fatto fatica per liberarmi da questa libertà, questa esaltazione sulfurea dello spirito che si erge sopra tutto e si rivolta contro il corpo e l’anima, contro il corpo e l’anima del mondo.
Per un attimo la luce era andata via. Era cieco. Aveva sentito bruciare ogni nervo, il sangue nelle vene, ogni brano di carne. Si lotta per venire al mondo, si disse, e si lotta per non andarsene. È così forte, la vita, più della morte; e per questo ho impiegato tutto me stesso per salvarmi dalla malattia dello spirito che mi aggrediva in quel prato quando ero bambino; ho impiegato tutta la fatica necessaria a essere vivi, a diventare uomini, cercando la completezza dell’essere, l’armonia finita e proporzionata che lega ed esalta l’anima e il corpo e lo spirito: l’integralità: la cattolicità. In quel prato quando ero bambino, a sottrarsi era solo il mio spirito, che si faceva alto e semplice e vuoto. Tutto il resto si ribellava. La mia anima e il mio corpo; l’anima e il corpo del mondo. Da questa malattia dello spirito viene lo squallido orrore degli orfici e dei marcioniti e dei catari, e poi dei protestanti e infine di ogni totalitarismo. Solo lo spirito si ammalava in quel prato separandosi e sottraendosi, mentre tutto il resto rimaneva integro: unito e separato, distante e vicino. I miei passi, i miei piedi, la terra, quanto è sopra e quanto è sotto la terra, il cielo. Tutto è sempre unito e separato. Tutto, si accorse Mann, guardando la stanza scura in cui si trovava, i mobili muti, i propri piedi avvolti nelle lenzuola, la porta distante e chiusa, tutto, ogni cosa in sé lì nel prato in cui camminavo da bambino brilla e risplende intero e pieno nella sua nuda santità.
Si chiese: come tradurre concettualmente la vissutezza della realtà? Come spiegare a parole che sbaglia e cade nelle insidie dell’inferno, nell’istituzionalizzazione della morte, chi vede tutto unito, o, che è lo stesso, chi vede tutto separato? Eppure è facile: tutto è separato perché è unito; tutto è unito perché è separato. Senza l’essere, non c’è divenire; senza divenire, non c’è essere. Questo non si può ridurre in un concetto. Il paradiso è qui: ma gli uomini non possono viverlo.
Il paradiso è intero e si può vivere solo se si è integrali. Esiste una parola per dirlo: cattolicità. Pensò a Platone. Anche Platone, si disse, ha cercato di essere integrale, e ha cercato di insegnarlo agli altri, ma ha fallito. Forse ha ceduto più di quanto avrebbe voluto allo spirito, all’odio per il corpo e la vita. E anche Dante ha cercato la cattolicità. Ma non ce l’ha fatta. È caduto nello stesso errore. E Goethe, Goethe aveva visto e capito: il cristianesimo, ha detto Goethe, è una rivoluzione politica che, fallita, è diventata una rivoluzione morale, ma questa rivoluzione può essere portata a compimento solo se si è capaci di partecipare interamente all’esistenza umana; si dovrebbe subito diventare cattolici, ha scritto Goethe, per partecipare all’esistenza degli uomini.
Cattolicità, si disse Mann, e pensò ancora a come era bella questa parola. Cattolico, sillabò nella mente. Ciò che è di nuovo unito, come un vaso che prima era rotto e, adesso, con arte e cura, è stato aggiustato. Mai come ora capiva il senso di quella parola. Ora, proprio ora che tutto il suo corpo si slacciava, ogni parte dall’altra, e l’insieme dal cuore, dal cuore, che palpitava ancora negli ultimi istanti; ora, proprio ora riusciva infine a pensare e capire: pensava all’enorme fatica necessaria per essere uomini, interamente, e capiva. Eppure non ce l’ho fatta, si disse, pensando a sé stesso per quello che era stato, sarebbe potuto essere, non sarebbe mai stato; pensando alla disciplina, al duro lavoro, alle ore e ore e ore passate da solo, isolato dal mondo, e dalle pulsioni e dai sentimenti che venivano dal corpo e dall’anima, per ricomporre in una storia tutti gli elementi della storia del mondo. Un fallimento, sospirò. Anche io, si disse, pensando a questa cosa incomprensibile, l’io, anche io ho fallito cedendo allo spirito, separandomi dal corpo e dall’anima. Tutto è un grande fallimento, pensò, e poi pensò a Einstein, e alla sua grandiosa storia che andava dalle più piccole particelle sentimentali del corpo del mondo fino alle grandi stelle. E dalla sua storia, si disse, è stata estratta la più mostruosa arma di distruzione di massa. E pensò a Broch. Che inutile sacrificio, si disse, quelle parole disperse nell’oblio, e tantissima infelicità. Abbiamo perso tutti, si disse Mann, o forse lo disse il suo cuore, che ora non batteva più, e non era più il suo cuore, e lui non era più Mann, e camminava in quel prato, ed era vero che nulla era confuso e perso in esso, e tutto era vivo nella nuda santità, e lui ora lo attraversava, e infine raggiungeva Einstein e Broch. Non era stata una vittoria piena, ma nemmeno una sconfitta. La sera calava lentamente, ed era dolce. Un odore intenso e dorato gonfiava l’aria. Era il profumo delle cose in sé. Continueremo a fare, disse Mann, o forse era Broch, o forse Einstein, continueremo a fare ciò che facciamo da millenni, a salvaguardia della perennità del mondo: costruire storie che coincidano con l’essenza perfetta della realtà. Il sole tramontò, e l’erba del prato e gli alberi attorno respirarono pianissimo. La morte fu esatta.
***
Lavorando sul meccanismo celeste della mente di Thomas Mann ho cercato, per quanto mi è stato possibile, di eludere la sua biografia: è quanto ha cercato di fare, nel corso della sua vita, Mann stesso, nella speranza di rimanere il più vicino possibile alla verità. La verità è un luogo: la valle della verità, la chiamava Platone; e tornare da quella è non solo pericoloso, ma anche doloroso. Alcuni sentono questo dolore di più. Alcuni nel loro ritornare al mondo per riferire la verità vedono addirittura la ripetizione di un peccato: la negazione dell’essere nel divenire; la violenza operata sul continuo dal discreto; la cacciata dal paradiso. La verità non appartiene a questo mondo, e tornare al mondo è uno sbaglio. Mann dovette sentire questo dolore con forza, come si può osservare nel modo in cui ha sempre teso all’inappartenenza: molte sue irrisolutezze politiche e, soprattutto, la distanza dai fatti esistenziali intimi, spesso tragici, testimoniano che la sua volontà verso la conoscenza concreta, il suo impegno etico verso il mondo, erano ostacolati da un desiderio nostalgico di fuga. Così anche nella sua letteratura (forse qui il vero senso della diffidenza di Musil nei confronti della sua opera), in cui l’impiego meticoloso di tutte le tecniche espressive e comunicative, portate a un livello altissimo di arte, impediscono quasi la resa della vissutezza della verità da cui tutto ha principio. È indicativo, in questo senso, un momento di particolare grazia della sua opera, La montagna magica, dove la lezione del realismo ottocentesco (portato alle massime conseguenze) e dello psicologismo novecentesco si mettono al servizio di un’operazione immaginale che è il preambolo del rapporto di Mann con Kerényi; di quel lavoro umanistico che entrambi hanno compiuto in maniera parallela, sostenendosi l’un l’altro, ognuno nel proprio ambito. In La montagna magica è proprio la vissutezza del percorso che porta dal sapere alla conoscenza a venire messa in campo come racconto iniziatico: come racconto autobiografico e recita misterica. Castorp, che sta tanto per Mann quanto per il prototipo dell’uomo ancora chiuso nell’assolutezza della propria innocenza e ingenuità, viene educato da Naphta (l’intelletto) e da Settembrini (la ragione) alle difficoltà del sapere nel contesto di un sanatorio (o di una geometria purgatoriale costruita sui numeri di Dante), perché il sapere è sempre costellato e corroborato dalla morte. Ed è qui che la vita (nella figura di una nuova ma sempre identica Beatrice: Clawdia) chiama Castorp alla conoscenza, all’impegno in questo mondo: Castorp andrà in guerra, perché l’essere è tale solo quando si nega nel divenire.
Pier Paolo Di Mino
Nell'immagine, Thomas Mann ritratto da Veronica Leffe.