CANONE #4 - ROBERT MUSIL
Perfino nelle fotografie in cui cerca di ostentare la più respingente delle albagie e di interporre uno schermo fra sé e gli altri, segno di un distacco e di una impermanenza assoluta, Musil non riesce a nascondere la dolcezza di uno sguardo melanconico; lo sguardo di chi, salvo da qualsiasi sentimentalismo, partecipa, con pienezza di sentimenti, alle sorti umane. È lo stesso tipo di partecipazione, aliena e incomprensibile ai più, che Musil vive per i personaggi dei suoi romanzi. Robert Musil possiede un coraggio sufficiente ad affrontare quelle depressioni e ansie e angosce che sono le vie (regie) di accesso alla realtà. I più le rifuggono, facendo uso di anestetici religiosi, ideologici, filosofici.
La filosofia mi irrita, pensava Musil mentre esercitava, nella sua tesi di laurea per il dottorato su Mach, le intuizioni che lo avevano portato a scrivere I turbamenti del giovane Törless (e ad appuntare con minuzia nei diari quanto sarebbe diventata la sua opera matura). Mach, pensava Musil, non cade di certo nell’errore di tutta la filosofia occidentale, così come si configura dopo Platone: non persevera nella presunzione di poter dire qualcosa sulla vita, sull’uomo, sul mondo, continuando a operare univocamente secondo una modalità razionale (mettendo solitamente a cattivo frutto la ragione) oppure abbandonandosi ai bagliori dell’intelletto: riducendo l’intelletto a macchina spassosa per produrre momenti di indimenticabile demenza mistica. I danni di una simile presunzione sono ormai, agli effetti pratici, davanti agli occhi di tutti. Ma anche il pensiero di Mach non è sufficiente: il suo scetticismo ostinato e intransigente tocca il vuoto fondamentale dell’ente ma non risale da questo abisso per dare forma a un sistema. E dal momento, invece, che un sistema è necessario, ecco che gli argomenti di Mach non arrivano mai a una vera conclusione: tutto diventa balbettio e oscurità peggiore di quella prodotta dalla metafisica. E allora?, si chiedeva Musil, esiste un sistema che neghi ogni sistema, in cui sia vincolante l’uso di una ragione libera dal razionalismo, in cui sia ineludibile una matematica che si riconosca fondata sull’irrazionalità dei numeri? È ciò che ha trovato Platone nella costruzione del suo stato perfetto: Dioniso. I numeri servono a rapportare i nostri sentimenti alla realtà prima del mondo, che è mondo, ossia ordine bello, perché frutto del lavoro estetico ed etico di dare forma a una realtà vuota e irrazionale vissuta per mezzo di sentimenti irrazionali. A cagione di ciò è necessario riconoscere nei numeri la loro matrice irrazionale.
Un sistema che non sia un sistema: a Musil, da tempo, sembrava possibile dare una risposta positiva al tormento filosofale che è al cuore della realtà, e, in quei giorni, mentre finiva la tesi, con stanchezza, con noia, pensava che si sarebbe dedicato per il resto della vita proprio a costruire un sistema che non fosse un sistema: un romanzo, un semplice volgare romanzo, con personaggi finti, battute finte; un romanzo da scrivere badando alla trama e al fluire della narrazione, e alla lingua, alle parole da usare per fare fluire la narrazione e intrecciare saldamente la trama in maniera tale che la verità ridondi in ogni immagine del racconto. Avrebbe fatto questo. Avrebbe buttato al secchio la tesi, e avrebbe faticato testardamente per scrivere molte cose finte.
E cosa ne sarà di me?, si chiese un giorno. La tesi ormai era quasi finita, e fuori dalla stanza pareva fosse primavera da sempre: una primavera, si disse, primordiale e selvaggia; e sentì un odore, un’essenza, l’odore dell’essenza, si disse ancora, e subito decise di smettere di giocare con le parole e di uscire, per fare una passeggiata, per divagare la mente e il corpo, per incontrare qualcuno e dirgli ciao, come stai?, e perdersi in chiacchiere che non portano a nulla, e bere qualcosa, e perdere tempo, e conoscere per caso una bella ragazza e dirle: non è un caso, ci amiamo, io e te, da prima del tempo: e prenderla per mano come se prenderla per mano fosse toccare il mondo in ogni suo punto, e almanaccare sul futuro con lei, sognare chissà che di grandioso e bello: saremo felici, saremo felici ci per l’eternità. Uscì di casa, e che dispiacere in realtà; che amarezza, pensò, che per non perdere nemmeno un grano di questa meraviglia, la polvere della strada, la luce e la polvere, e i corpi delle cose che attraversano luce e polvere, e i sentimenti leggeri e vani degli uomini, e le grandi verità; che per non perdere nulla, invece, perderò tutto: quale peccato che tutte le cose saranno in un romanzo, e io le perderò tutte. Gli passò accanto un gruppo di militari. Ridevano e facevano chiasso. Sembravano allegri. Salutarono due ragazze, che fecero finta di offendersi. C’era chi entrava nei negozi, c’era chi ne usciva. E io?, si chiese. Un giorno, compiuti ormai sessantadue anni, guarderò i fogli del manoscritto, un romanzo pieno di cose finte in cui ho scritto solo la verità, e proverò ribrezzo, e odio, e paura. Dovrei riflettere, si disse, su quello che voglio fare della mia vita. Perché sprecare il tempo infilando parole l’una appresso all’altra, l’una dentro l’altra, l’una così vicina e così lontana dall’altra? Le notti insonni, le emicranie insopportabili, la carne che si fa debole, si secca, e si svuota. Tutte quelle sigarette. Pensieri. Fabbricare pensieri. Leggere, studiare, leggere, leggere e rileggere. Scrivere, scandì dentro la mente, e gli venne voglia di bere, e sedette a un tavolo, e ordinò un bicchiere di vino.
Il vino lo ubriacò subito, e pensò: all’inizio sembra una cosa bella. In fondo comincia sempre così. Al principio il mondo si pone davanti a noi come una presenza estetica, e ci chiama. Richiamo: questo è il significato della parola greca per indicare la bellezza. La bellezza provoca dolore. Certo, i più non provano proprio nessun dolore perché non sentono nessun richiamo, non vedono nessuna bellezza. Ma c’è chi vede e prova, e ricava da questo richiamo del mondo una grande amarezza. Pessimismo. Diciamolo così, in modo semplice: pessimismo. Ma allora ci sono due tipi di pessimismo. Il pessimismo contro il mondo, accusato di provocare dolore; un pessimismo che induce a sprofondare nel razionalismo, o nell’irrazionalismo, (è la stessa cosa), a cadere nell’uso protervo della metafisica, un pessimismo che porta a fingere numeri razionali per poi applicarli sul mondo, contro il mondo, praticando una matematica irreale e irrazionale come quella di Euclide. E, però, c’è un altro pessimismo, rivolto non contro il mondo, ma contro questi pessimisti che odiano il mondo. Sarebbe così bello potere vivere con gioia e dolore l’intero complesso della realtà, ma costoro, clerici orfici, torvi gnostici, sono sempre tra i piedi, e guastano tutto con le loro proposizioni insensate. Bisogna scrivere una storia che coincida con la storia del mondo, con la realtà. Bisogna farlo contro questi guastatori della vita altrui.
Il cameriere gli chiese se desiderasse altro e Musil ordinò ancora un bicchiere. Non era una cosa intelligente da fare, era già ubriaco, ma ormai l’ordine era partito. I guastatori, pensò, sono il vero danno, e la domanda giusta è: cercare una soluzione a questo danno è legittimo? Oppure questo disperato amore per l’uomo è solo una vana fantasticheria dettata dalla tracotanza? Forse, addirittura, è solo una fissazione nevrotica, un fantasmata, un oggetto astratto posto come un problema da risolvere con passione. Porsi un problema è sempre gioioso, perché un problema sta lì davanti a noi per essere risolto. Tutta la realtà è un problema da risolvere, e cercare una soluzione è un atto creativo violento, che si impone sulla caoticità essenziale di quanto esiste. Voglio dire: magari mi sono messo in testa di combattere contro questi guastatori solo perché sono matto come loro. Aveva ancora voglia di bere. Puzzo di vino, e non mi piace, pensò, non mi piace per niente, ma berrò ancora, malgrado non abbia senso. Tutto è un caso, si disse, a partire dal nostro io. L’io è un vuoto nel quale si agitano infinite possibilità, un caso sul quale costruire una vita piena di senso e significato. Il cameriere tornò con il vino, e Musil lo finì in poche sorsate. Ecco, pensò, se fossi davvero intelligente non mi metterei in questo affare. Lo gnostico, ha vinto. Non si tratta solo della fine dell’Austria, della caduta dell’impero romano, di Babilonia o Ninive. Tutto deve cadere perché la fine è la premessa imposta da questi guastatori, che ora, però, trionfano. Lo gnostico è diventato l’uomo comune, l’uomo di massa. L’uomo comune sente l’io come un peccato del quale farsi carico imponendosi una punizione. Farsi carico di un peccato, di una colpa, e poi punirsi: questo è l’unico modo di fingere e inflazionare un io che, altrimenti, non esisterebbe. Questa finzione, questa inflazione ha creato la condizione umana nella quale ora viviamo: in cui l’io di ogni individuo è determinato dalla società, esiste in funzione della società, attraverso ritrovati quali l’istruzione, i giornali e le radio e il cinematografo, le religioni, la psicanalisi, la pubblicità commerciale. È la società che dice al singolo ciò che deve essere. Le società, che sono un costrutto di matrice orfica, impongono all’io degli individui di essere qualcosa di certo e determinato, irreale, ma socialmente utile. Le società impongono all’io degli individui una grottesca mancanza di senso e di significato: per vivere vi dovete punire del fatto di essere vivi, ci dicono fin da bambini, e dovete lavorare senza motivo, e farvi del male insensato; per vivere dovete morire. La società, questo danno inflitto al mondo, alla vita, alla realtà tutta, all’uomo, è l’istituzionalizzazione della morte. Le donne e gli uomini ormai vivono soltanto una vita morta.
Se fossi davvero intelligente, si disse Musil mentre beveva un altro bicchiere (non si era accorto di averne ordinato ancora), non mi metterei in questo affare. Sono ubriaco, si disse, e, di nuovo, pensò a sé stesso da vecchio, in mezzo a migliaia di fogli, disordinati, sporchi di caffè, di cenere di sigaretta, infelice, amareggiato, schifato di tutto. E a qual fine?, si disse. Viviamo in un vaneggiamento ineffabile e sublime, e contro un delirio strutturato non si può fare nulla. È inutile cercare di negare un delirio: diventano furiosi. Solo il sapere può negare un delirio, ma a nessuno interessa il sapere. Le persone non sanno nemmeno di non sapere. Presumono, anzi, che la serie di nozioni e opinioni inculcate in loro abbiano una qualche relazione con la realtà. Questa presunzione è il loro delirio. L’uomo medio, dal buon proletario al luminare titolato, dal piccolo rivenditore di polli al capo di Stato, soffre di questo delirio in maniera incurabile. Eppure, non sono certo io a essere cento anni avanti: è l’uomo medio a essere cento anni indietro. No, a nessuno serve la verità infilata in un romanzo pieno di cose finte.
Senza contare, gli stava dicendo la ragazza, che potrebbero rivolgere al male quanto di vero scriverai.
Non esiste, continuò, una sola idea importante di cui la stupidità non abbia saputo servirsi: essa è pronta e versatile e può indossare tutti i vestiti della verità. La verità, invece, ha solo un abito e una sola strada, ed è sempre in svantaggio. Musil annuì. Chi è?, si chiese? Da dove sbuca? Era bellissima, e giovane, così leggera, con lunghi capelli biondi raccolti in un’armoniosa acconciatura: aveva il viso pallido, e i lineamenti perfetti e gli occhi erano chiari e azzurri. Lo fece alzare. Ora basta, gli stava dicendo, hai bevuto troppo. Ogni tuo pensiero sa di vino, e, certo, non è un male il sapere di vino, ma in tutto ci vuole misura e dottrina e ragione.
Lo teneva sotto braccio, per sostenerlo, ma sembravano due innamorati che non riescono a stare l’uno lontano dall’altra. Ed era così. Anche se faceva resistenza, questo va detto, Musil si sentiva attratto da lei, ne era innamorato, certo, lei era così gentile, e onesta, e la sua bellezza era un miracolo, e tuttavia Musil le resisteva; e protestava. Non si può fare nulla, diceva, presumono di sapere, di vedere, di sentire e provare, di vivere, e chi presume non sa. Tutti presumono, perché la pratica del sapere non interessa più nessuno. La civiltà è stata sostituita da un surrogato, la società, un aggregato di nullità che si fonda sulla convinzione incredibile di reggersi tautologicamente su sé stessa. Non serve nient’altro. Non serve più il sapere, non serve più la cultura, non servono più quella serie di riferimenti all’altro, alla rete di relazioni che creano la realtà, e che nutrono la scienza. La ragazza sorrideva. La condizione umana, insisteva Musil, è determinata dall’immaginazione guastata di uomini inadatti alla vita, inadatti all’amore, al pensiero, al sapere, alla conoscenza. Cercano di capire la realtà attraverso proposizioni sillogistiche che alla realtà non aderiscono. Oppure si affidano a grandi visioni di cui non sanno dire nulla, dal momento che non si riferiscono a nulla. Hanno queste grandi visioni e da quel momento in poi non ci raccontano più, s’intende, le loro percezioni difficilmente descrivibili, in cui non vi sono né sostantivi né verbi, non hanno sostantivi, né verbi per descriverle, ma parlano solo attraverso frasi fatte composte da oggetto e soggetto, perché credono alla propria anima e a Dio come ai due stipiti di una porta, fra i quali apparirà il Meraviglioso. Il Meraviglioso promesso dalle religioni, dalla filosofia, dalle ideologie e dalla scienza moderna. E io farò una vita orribile se mi metto in un affare del genere. E non servirà a nulla. No, non si può fare nulla per risolvere questo problema.
Sì che si può fare qualcosa, disse la ragazza, e lo strinse più forte. E tu lo farai. Il problema che abbiamo davanti lo possiamo risolvere solo con una visione diversa, che connetta ragione e intelletto; una visione regolata su un ritmo, su una matematica che si riconosca fondata sull’irrazionalità dei numeri. È necessario scrivere un romanzo che abbatta gli inesistenti confini fra poesia, arte, narrazione, pensiero razionale: solo così si può favorire il passaggio a un altro stato, in cui l’uomo vive immerso nella realtà, nella serie di relazioni create dalla rete invisibile della vita. Non sei il primo a cui lo dico, e non sarai l’ultimo. E farai quanto ti ordino, perché io ti amo, e tu ami me. Vero? Lo farai?, gli chiese la ragazza, e Musil annuì, perché era vero: lei negli occhi portava l’amore, e dell’amore aveva intelletto. E la seguì dentro un portone, e salirono le scale. La ragazza lo trascinava, Musil non capiva dove, ma, entrati dentro una casa, si ricordò. Si sedette alla scrivania, e ordinò i fogli, guardò i libri, i quaderni, le penne e le matite. La mia enciclopedia spirituale, pensò, o forse è l’archivio impossibile di tutte le possibilità. Anni e anni di inutile fatica. Arrivati a sessantadue anni, si disse, si deve ammettere che abbiamo fallito tutto. Si sentì mancare il fiato, e la luce si fece più forte. Gli fece male il cuore. Ma la luce sfarinò, e scintillò, e, grazie a quello splendore, il cuore smise di tremargli e fargli male. In quella luce, ora così chiara, tutte le cose, ognuna distinta dall’altra, si fecero vicine, e furono una sola cosa. E allora la ragazza, era l’amore che la faceva muovere, gli disse: non hai fallito nulla, e tutto è stato fatto come doveva essere fatto.
Avvelenato dalla nicotina (come annota nel diario), stordito dalle continue crisi nervose, convinto (a torto) di essere misconosciuto, Musil morì d’infarto a sessantadue anni. Al suo funerale parteciparono otto persone.
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Musil è l’autore di un’opera vasta in cui il pensiero filosofico (l’etica, la politica, la psicologia, la logica, la metafisica, la matematica, le scienze) trova un’organizzazione estetica comunicata con musica ineffabile: trova il mondo. Chiedendomi quale vissutezza abbia portato Musil a questo, quale archetipo ossia Musil abbia incarnato, non ho potuto fare a meno di dare espressione a un dramma che si ripete eterno in tutti gli uomini che, direbbe de Santillana, dominati dalla furia numeratrice, alzano gli occhi al cielo per contare le stelle e le loro distanze: uomini che inventano rapporti matematici per conoscere la forma razionale e armonica del mondo; e raccontarne la storia. Cercano il tutto, e lo trovano in un punto vuoto da cui ritornano per riferirne la verità, e per compiere quest’opera sono sostenuti da un sentimento d’amore inconsueto: perciò, nel dramma che si ripete eterno, è raccontato che a guidarli per tutta la vita è una donna, umile e alta, immagine di ogni bellezza, figura del mondo.
Pier Paolo Di Mino
Nell'immagine, Robert Musil ritratto da Veronica Leffe.