CANONE #3 - JAMES JOYCE
Voglio parlare di Joyce per parlare del grande dio Ermete. Voglio, anzi, parlare di Joyce come fosse il grande dio Ermete, padrone dei sogni e custode della notte.
Polvere, sembrava polvere, molta polvere nell’atmosfera, così, all’improvviso. Ma forse si sbagliava. Non devo distrarmi, pensò Joyce, e poi si chiese a cosa stesse pensando, ma niente, non gli riusciva di capirlo. I pensieri procedevano veloci lungo quindici, forse venti piste, o tracce, o strade diverse, che si intersecavano e ostacolavano l’una con l’altra. Forse, una voleva emergere.
Una vuole emergere, si disse Joyce, o, meglio, c’è una traccia, una strada, una pista, un pensiero che mi interessa pensare più degli altri, e la difficoltà sta tutta nell’isolarlo e assorbirlo nella coscienza. Una folata di vento gli colpì il viso, e gli fece chiudere gli occhi. Giambattista Vico, si disse. Sto pensando a Vico, a quella scena della Scienza nuova: Vico cade dalle scale, e afferma che così ebbe l’intuizione della sua filosofia. L’intelletto ridotto a incidente, pensò Joyce. Geniale. Il mistico come infortunato. Anzi, come malato. Userò questa scena. In un modo o nell’altro. In fondo l’intelletto, isolato e avulso dal complesso immaginativo, davvero è un incidente, una malattia, una disfunzione che dispone l’uomo a conoscere la realtà in un modo morboso, così come la ragione, strappata a morsi dal complesso immaginativo di cui sopra, staccata e messa lì come una cosa secca, è soltanto uno stato di apparente salute, salute da bestie, che conduce alla beata ignoranza paolina del mondo. È così. Solo quando intelletto e ragione sono consonanti e ben intruppati nell’immaginativa l’uomo conosce la realtà e ne ricava uno stato di salute armoniosa; solo quando intelletto e ragione si scambiano costantemente, con ordine, gli umori nel flusso e riflusso della vita; solo allora nel sangue delle cose scorre senza intoppi la musica celeste e terrestre, assoluta e concreta, sofisticata e popolare dell’anima del mondo, ben concordata e perfettamente accordata, concertata, euritmica, proporzionata, simmetrica, coerente, in una parola conforme a vera (o nuova) scienza, e tutto assume e sussume senso e significato: questo è il dettato del neoplatonismo fino a Dante e da Dante fino a Vico.
Joyce sentì freddo, anche se il vento si era abbassato, ed era uscito il sole. Si accorse di pensare a Dante Alighieri, o, meglio, che stava cercando di farlo, ma la strada era piena di persone: per lui era davvero troppo, si doveva sfilare dalla folla, perché, si disse, la folla opprime, toglie aria, e, senza aria, i pensieri si afflosciano, anneriscono, avvizziscono, muoiono. Si infilò in un vicolo. Raggiuse una piazza. Sedette su una panchina. Guardò un piccione che becchettava il pavé, pareva pavé, come in Francia, come a Parigi, ma, rifletté Joyce, non poteva essere pavé. Pensò di nuovo a Dante, pensò che non c’era niente da fare, che lui e Dante avevano due temperamenti diversi, senza contare l’epoca diversa, e i fatti circostanziali, e via dicendo; e poi Joyce pensò a Dante esule, costretto a essere tale dalle avversità della vita, a Dante che girava l’Italia accolto nelle corti, e pensò a Dante che cantava la bellezza dell’intelletto intuitivo rivestendolo delle fattezze spirituali di una donna in carne e ossa.
Io, si disse Joyce, sono un esule costretto a essere tale per professione di fede letteraria, oppure per fedeltà a Dante, sarebbe a dire per capriccio, sbattuto qui e lì, ramingo, più che altro questuante: l’Italia, la Francia, l’Inghilterra, Dublino; quante case avrò cambiato? povertà, miseria, umido e muffa, freddo, alcol, alcol etilico, alcol dalla parola araba che indica lo spirito o dalla parola araba che indica la polvere di stibnite ottenuta per sublimazione dall’antimonio, alcol in quantità straordinarie, e quindi sbronze, ciucche, grandi ubriacature, vomito al mattino, buchi neri nella memoria, e tant’altro, tant’altro, comunque uno schifo, a pensarci bene non capisco come una persona quale sono, un letterato, possa accettare questa cosa. E poi Nora: Nora, sì, andiamo al punto di cui interessa davvero ragionare: Nora donna in carne e ossa: il viso di Nora; gli occhi di Nora; i piedi di Nora; una cosa che dice e una che non dice: e scatta l’intelletto intuitivo: ecco la chiave: ecco la verità manifesta che nessuno vuole dire: il romanzo della rosa, la rosa cercata in sogno da Polifilo che l’epoca moderna e razionalista, riformata e controriformata, ha reciso affinché non rinascesse mai più. Mai più. Povera rosa. Povera rosa delle donne. Ma io a Nora glielo dico sempre: impazzisco pensando ai tuoi strapazzi intimi, e sia, quindi: che io impazzisca pure; glielo dico sempre: confessa, confessa che non ti importa nulla di nulla che mi hai tradito, dimmi che mi hai tradito perché sennò non riesco a scrivere. È l’eminente sostanza erotica dell’intelletto che rende il mistico ciò che è: un amante devoto e possente.
Nora, si ripeté Joyce, ma distrattamente, perché, ora, la sua attenzione era assorbita di nuovo dalla polvere, o erano chicchi di neve minuscoli, quasi invisibili, che galleggiavano o volteggiavano lentamente nell’aria, o, forse, erano grani di pulviscolo cosmico, o, gli venne in mente infine, quelle erano le unità minime di pensiero che sottendono la struttura del mondo e che sono lì per essere intercettate attraverso il respiro dagli uomini, o da qualche altro animale, per potere essere finalmente pensate.
Comunque, si disse poi, Dante con il suo esilio non ha espresso altro che un fatto minore, un dramma umano qualsiasi: ossia Dante non ha rappresentato, con il suo esilio, la condizione umana in sé, che è appunto l’esilio. Quindi, non Dante ma Odisseo. Ci arrivo. Il protagonista del mio romanzo è lui, Odisseo, io sono Odisseo e così lo sarà anche il mio eroe di carta e inchiostro, discendente di Ermete: questa è la cosa fondamentale! Infatti, pensiamoci bene, cosa può fare un discendente di Ermete, il mio personaggio, o io, o l’uomo in sé se non peregrinare disperato? per una metà malato di mente, e quindi corrusche visioni, schizofrenia, eccessi di ogni tipo, birra o erba moli, vomito al mattino, e, per l’altra metà, delinquente e truffaldino da capo a piedi, pieno di astuzie (in qualche modo si deve campare, sbarcare il lunario, svoltare la giornata: e freghi e impicci, scappi nella notte da casa per non pagare l’affitto, queste cose qui, insomma). Ecco, ecco, questo è il tragitto, il percorso dell’uomo: attraversa il mondo, perdendosi: per metà è un pazzo e per l’altra metà un ladro schifoso senza morale, ma, alla fine, attraversato il divenire, raggiunge l’essere, ossia Nora, o Penelope, e le sue facoltà si riuniscono: la malattia mentale e la schifosità morale diventano intelletto e ragione, intelletto e ragione ben intruppati nell’immaginativa, e l’uomo ora è completo, è felice: è un uomo. Grazie a Nora, che, l’uomo, lo ha evocato a sé per mezzo del desiderio, della gelosia che rende matto il maschio. Omero racconta che Penelope non si è lasciata tentare dalle ambasce della solitudine; in altre storie, invece, Penelope ci ha dato fondo, a quelle ambasce: fino a soddisfare tutte le tentazioni. Quale sarà la verità?
Vai a sapere tu la verità con Nora?, si disse Joyce, e si sentì allegro, ed ebbe voglia di bere, e di stare con Nora, ubriaco. Comunque, si disse, questi sono fatti semplici, sempre gli stessi: l’uomo attraversa il divenire per raggiungere l’essere. Però, però, cos’è che accade veramente mentre accade questa cosa, questo affare faticoso di raggiungere l’essere? Accadono le parole, ecco cosa accade: le parole accadono, cadono, si sfasciano, si sdoppiano, triplicano, si ricompongono, sono fatte così, di lettere, di lettere traducibili in numeri, di numeri udibili musicalmente, di musiche visibili attraverso i colori, parole, parole e parole. Cosa significa una parola? Una parola significa tutto ciò che può significare e che non può non significare, orribile segreto della realtà, che uno ci può diventare matto o un grande delinquente, ma se sai giocare bene le tue carte allora no, allora tutto è pieno di meraviglia e splendore.
Joyce si incantò su quest’ultimo pensiero: la meraviglia e lo splendore; e, infatti, ora i grani di pulviscolo, le unità minime di pensiero che sottendono la struttura del mondo, le parole nell’aria, vibravano e brillavano: e Joyce si alzò in piedi di scatto, si sentiva davvero allegro, vispo, e rise, e si fece coraggio e prese fra le dita un’unità minima di pensiero, una parola, e la scagliò contro un’altra unità minima di pensiero: e tutto il mondo vibrò, brillò di intelligenza. Era davvero bello vedere quella cosa, e Joyce, sempre più allegro, sempre più vispo, si disse: andiamo a casa, serve solo uno scrittoio, o una scrivania, una mappa di Dublino con sopra tracciato il tragitto fino all’essere passando per il divenire, penne, inchiostro, quaderni, e, più di tutto, un vocabolario zeppo di parole. Che il gioco abbia inizio.
***
È per me Joyce, prima e più che un modello letterario, quello spirito prototipico che incarna nella professione del filosofo mistico la natura mercuriale; è in questo senso che ho trovato in lui, nel suo gioco letterario sovraindividuale e trascendente la Storia, l’antidoto a quella teologia della modernità che ha tramutato gli dèi in malattie: nella fattispecie Ermete in schizofrenia.
L’opera di Joyce è stata sentita come una provocazione contro le abitudini mentali, linguistiche, letterarie, accademiche del suo tempo; ma la sua provocazione è più radicale perché nasce da un naturale slancio della volontà verso la verità, verso una conoscenza concreta, vissuta nella gioia e nel dolore, che non si appaga delle vaghezze, delle mezze luci lunari della metafisica: lontano dagli schemi astratti, dualistici o monisti, Joyce ci mostra la realtà quale è, discreta e continua nella sua sostanza materiale e spirituale. Così è in tutta la tradizione che principia con la sapienza greca, dove ogni simbolo è carne, e ogni ente materiale è il suo significato: si può avere zelo per Dio solo provando gelosia per una donna. Viscere dello stomaco e viscere della mente sono i mezzi sensibili dell’operare di Joyce. La visceralità di Joyce colpisce Jung, tra i primi a recensire Ulisse; ed è interessante notare come Jung, che ha indicato nella trasformazione degli dèi in malattie uno dei guasti principali della nostra epoca, legga in questa visceralità non il moto proprio della mercurialità, ma una malattia, sentendo il romanzo come un congegno respingente e algido causato da un disturbo gastrico, simpatetico del suo autore, invece che come un sistema di parole, ossia di corpi eidetici e fisici; un gioco mercuriale, appunto, quello dell’intera tradizione di sapienti e filosofi mistici e maghi rinascimentali: da qui la finzione ermetica della sua identificazione con Vico.
Quale sia la relazione di Joyce con Vico è questione lungamente dibattuta, ma tale relazione è indubitabile, ed è anzi evidente già solo se si osserva e gode il gioco cominciato a opera del giovane Beckett nel saggio pubblicato in Our Exagmination (pubblicazione, pare, avvenuta sotto l’occulta direzione di Joyce stesso): è in questo piccolo lavoro, infatti, concepito con grazioso metodo ermetico, che Beckett inventa (uso il termine nel suo senso proprio: trova) l’appartenenza di Joyce alla tradizione letteraria e filosofica cominciata da Dante, culminata con Bruno, finita con Vico, cercando prima di tutto, l’identità fra Joyce e quest’ultimo. L’identificazione, all’apparenza, è possibile grazie a banali motivi biografici: entrambi di natali umili, immersi nella tragedia di un’epoca ingloriosa che non riconosce valore al sapere e alla conoscenza, tanto l’uno che l’altro hanno dovuto camuffare la loro professione di fede nella verità. Un camuffamento che Vico opera attraverso l’invenzione di un episodio biografico, quello della caduta dalle scale, con il quale rappresenta, nell’unico modo possibile in una civiltà ormai avviata alla decadenza, la degradazione esistenziale di chi si è trovato a proferire la domanda spaventosa: «che cos’è la vita?», e quindi «come si deve vivere?»: degradazione che corrisponde alla degradazione della sapienza ridotta a infortunio e malattia. Joyce si appropria dell’episodio, e lo fa in virtù di un’identificazione nel gioco linguistico di Vico: un gioco espresso scavando nell’archeologia della parola, nel suo cuore, dove è ancora chiusa la verità; esercitando il piacere per la bizzarria e la capricciosità delle parole: un metodo per avvicinarsi alla lingua prima, originaria e nuova da sempre, precedente ogni parola e numero, che è la musica delle cose del mondo. Questo gioco linguistico, vichiano prima e poi joyciano, che libera dai pervertimenti cognitivi del cartesianesimo, colloca la musica prima della parola, l’intelletto prima della ragione, e, quindi, ristabilisce quei rapporti dati fra sapere e conoscenza distorcendo i quali non è possibile avere cognizione del mondo e vivere.
Ho infine prelevato dalla biografia di Joyce la sua condizione esistenziale di esule per restituirla a una condizione prototipica, che riferisco ancora una volta all’ambito mercuriale: a Ermete, il dio che dà e toglie, e non è mai di qui. Reputo infatti che anche la condizione di esule a cui Joyce si è sottomesso non trovi senso e significato in banali motivi biografici: anche questa condizione è cercata. È la condizione di Dante e di Bruno, e segna un percorso storico sovraindividuale: quello che va dalla nascita alla decadenza del sogno di armonia filosofica in cui il sapere e la conoscenza, il dionisiaco e l’apollineo, trovano espressione attraverso il gioco mercuriale, e che ha avuto la massima eminenza nel Rinascimento italiano.
Pier Paolo Di Mino
Nell'immagine, James Joyce ritratto da Veronica Leffe.