CANONE #2 - FËODOR MICHAJLOVIČ DOSTOEVSKIJ
Il giorno era sospeso nella confusione con la notte. Dostoevskij aveva perso tutto a carte. Sedeva su una poltrona sdrucita, in un locale che puzzava di fumo, sudore, urina e incenso.
Forse, però, l’odore di incenso lo immaginava solamente. Si sentiva intossicato di tabacco. Si sentiva avvelenato dagli alcolici. Si sentiva disperato. Davanti a lui sedeva un coetaneo, un giovane universitario, non riusciva a ricordarne il nome: Dostoevskij si sentiva confuso, mentre il giovane universitario no, lui non sembrava confuso, non lo era, lui era a suo agio, lui era chiaro, lui era bianco in quel buio; e allora Dostoevskij pensò: tutti sono chiari, e io sono l’unico oscuro.
Il giovane universitario parlava del futuro. Pareva certo che sarebbe venuto. Inveiva contro la religione. Parlava di ateismo, di modernità, di felicità, di utilità, di produzione. Citò Bentham. Si tratta solo, disse a un certo punto lo studente, di vedere se, nella dialettica storica, vincerà la borghesia produttrice o il proletariato lavoratore. Citò di nuovo Bentham. Dostoevskij si ricordò di Dante, di quella scena dell’Inferno in cui ci sono i banchieri, e i banchieri si leccano i labbri superiori con la loro grossa lingua. All’inferno, pensò Dostoevskij, si vede cos’è davvero chi pensa ai soldi: un animale.
Regolazione, disse poi lo studente. Il capitalismo raggiungerà, un giorno, il suo grado massimo di efficienza ed efficacia, sarà perfettamente regolato, e sarà superiore motivo di giustizia, ma prima, prima, più di un fiore innocente dovrà essere reciso dal passaggio della Storia, la lotta di classe travolgerà tutto, ci saranno morti, molti morti, ci devono essere, ma, infine, chi vincerà creerà in terra un mondo di giustizia, di perfezione, di purezza, di onestà, in cui l’uomo lavora, e nel lavoro trova la propria ragione di vita superiore. Non esisteranno più malattie, e imperfezioni, e tutti saranno uguali. Dostoevskij cercò di immaginare questo mondo dove gli uomini erano uguali e non c’erano imperfezioni, e si figurò un mondo dove gli imperfetti erano uccisi di continuo, e ogni cosa era morte. Uccideranno i poeti e i musici e gli scienziati, si disse. Si cerca solo ciò che non si ha, e i poeti, i musici e gli scienziati cercano la perfezione perché sono imperfetti.
Il giovane universitario stava parlando ancora del lavoro, con entusiasmo, con fervore. Parlava di terra irredenta, strappata alla confusione della natura, alle paludi e ai deserti e alle foreste primitive; parlava di razionalizzazione della produzione, di fabbriche, del loro funzionamento, che sarebbe migliorato ogni giorno, aumentando la quantità delle merci, e poi parlava di distribuzione e benessere, e questo, tutto questo discorso sul lavoro che sarebbe sempre più aumentato, aumentando la ricchezza, fece venire in mente a Dostoevskij la storia del contadino devoto a Ercole. A Roma, prima dell’èra volgare, raccontavano questa storia. C’era un contadino. Era molto devoto a Ercole, e, come tutti i devoti a Ercole, era infaticabile. Aveva dieci campi, e li coltivava giorno e notte, con zelo calvinista, con fanatica fede nel guadagno. Un giorno, però, si sentì disperato. Non ce la faceva più a lavorare. Così pregò con particolare fervore Ercole che lo facesse diventare ricco in maniera tale da potere smettere di faticare tanto. Ercole amava molto il suo devoto, ma non era capace di fare miracoli. Ercole nemmeno ci credeva nei miracoli. Ma amava il suo devoto, e così mise in moto la lenta macchina del suo apparato mentale, e alla fine capì che poteva chiedere aiuto a Mercurio. Mercurio lì per lì gli disse di no. Non ho nessuna intenzione di aiutare questo piccolo calvinista che mi ruzzola tutto il giorno fra i campi come uno stercorario, disse a Ercole. Poi, però, Mercurio si chiese: cos’è il genio? E si rispose: trovare l’occasione giusta per divertirsi. E così accondiscese a fare il miracolo a favore del devoto di Ercole, che, il giorno dopo, mentre zappava la terra, trovò un tesoro, una cassa piena zeppa di oro zecchino. E cosa ci fece il contadino con tutto quell’oro? Lo prese e ci comprò altri dieci campi, e il giorno dopo ancora, finito di zappare per bene, con cura, tutt’e venti i campi, gli prese un colpo al cuore per la fatica, e morì. A Roma, si disse Dostoevskij, Ercole era sentito come il dio degli stupidi. Dostoevskij non riuscì a trattenersi dal ridere.
Ma che ti riderai mai?, gli fece allora il giovane studente. Sei un fallito, come tutti i letterati. Bel lavoro ti ha dato la disoccupazione. Fallito. Sai che ti dico? voi poeti siete peggio dei preti. Peggio dei preti, ripeté, e, a quel punto, Dostoevskij si accorse che sorgeva il sole: da una piccola finestra del locale, ora, entrava la luce del giorno, che sfarinava l’aria, ed era bella, perché il mondo, pensò Dostoevskij, continua a essere bello malgrado questa gente qui. Almeno saluta, gli stava gridando il giovane studente. Ma saluta, almeno. Dostoevskij si accorse di essere in piedi, davanti alla porta del locale. La notte precedente aveva perso tutto a carte, ma adesso aveva una storia in mente, e la doveva scrivere: non era possibile fare altro che scriverla. Il giovane studente gli urlava ancora contro. Dostoevskij uscì. Il giorno era davvero bello. Era bello. E la bellezza, pensò Dostoevskij, ci salverà.
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Dostoevskij, in tutto il corso del suo operato letterario, ha cercato questa bellezza salvifica perché ha cercato il sapere: quel luogo sempre identico in cui lo stesso identico tipo umano è chiamato per cercavi la verità. Tutta la sua letteratura è la traduzione in esperienza, in forma di conoscenza comunicabile e condivisibile, di una riflessione viva e attiva esercitata sul dogma ortodosso per il quale la bellezza e l’amore coincidono tra di loro, e coincidono con il sapere. L’identità, di origine platonica, fra il sapere, la bellezza carnale e spirituale (tradizionalmente personificata nella figura femminile), e l’amore (inteso come comunione mentale) trova in questa religiosità una particolare intensità e dimensione: una dimensione onniavvolgente, intrinseca alla realtà del mondo, comprensibile e godibile soltanto dal pazzo in Cristo, o da un uomo come Dostoevskij, o da uno dei suoi personaggi impossibili da raffigurare perché assolutamente buoni; perché impossibili da redimere al vano scialo dei giorni, ai commerci insensati e lerci, allo spreco e all’inconsistenza e all’insignificanza, all’orrore sbiancato che si patisce nelle nostre società normative.
È impossibile ragionare sulla letteratura di Dostoevskij sottraendosi alla fantasia decadente del poeta perso nel mondo moderno, del grande epilettico, del giocatore d’azzardo, ma, dietro questa fantasia mondana e secolare splende un modello antimondano, un ruolo prototipale di carattere mistico, che Dostoevskij assunse come professione di fede: se Dostoevskij è riuscito a raccontare, e con fantasia esatta, cosa sia il male, e come ripararsi da esso, questo è senza dubbio dovuto al fatto che ha assunto i modi tipici della pratica ascetica messa in atto dalla figura scandalosa dello jurodivyj: lo stolto in Cristo, che rompe con le regole della normalità, con i codici e commi della teodicea banausica della società secolare; il folle che esce fuori dalla scena dove si recita, in tutto il suo orrore, lo spettacolo del commercio normale dei sentimenti e delle ragioni: il santo osceno. Dostoevskij assunti questi modi, li ha quindi elaborati e trasformati in letteratura.
Per penetrare una dialettica distruttiva ed eversiva nei confronti di una società che smaterializza gnosticamente la vita, che sostituisce la realtà con la norma, e le leggi con le regole, e riduce l’intero complesso dell’immaginazione umana alla sola ragione commerciale; per capire una dialettica che riporta l’uomo alla sua capricciosa umanità, quale è quella impiantata nel cuore della letteratura di Dostoevskij, dobbiamo prima di tutto immaginare Dostoevskij come uno jurodivyj, come fosse, ovvero, uno dei suoi personaggi in un luogo qualsiasi dei suoi racconti (della potenzialmente infinita catena dei suoi racconti) che vaga, si perde, si ritrova nel cuore dell’uomo.
Per Dostoevskij ho tenuto sempre presente il problema della psicopatia latente di un’epoca, la sua, che aspettava solo di vedere elevato a sistema la propria disfunzionalità, e la soluzione a tale problema che risiedeva, per lo scrittore russo, nella tradizione mistica della propria terra; una tradizione, quella della Chiesa d’Oriente, che offre un’equivalenza fra mondo, sapere e bellezza come forme razionali. Troviamo l’origine di questa tradizione nella speculazione filosofica di Platone che individua nel bene, e nella bellezza come sua forma sensibile, il compito destinale dell’uomo. Con «bene», usato in maniera ambivalente e ambigua ora come idea materiale ora come concetto, Platone maschera la realtà dell’essere, la cui immagine vera è precipita sempre nella figura femminile, forma della bellezza da cui discende ogni bene. La figura femminile, immagine della realtà, immagine del mondo, con questa bellezza ci seduce e ci spinge, con grazia, a praticare quanto di buono è possibile praticare durante l’esistenza: questa è la lezione che il neoplatonismo, a Harran, ha trasfuso nell’Islam; e, in Occidente, nella Chiesa cattolica: da questa lezione discende la speculazione poetica di Boezio, Ibn Arabi, Dante, e via dicendo fino a Dostoevskij, che, tenendola viva nel cuore, ha potuto raccontare all’uomo moderno come salvare la proprio umanità. L’uomo moderno, ha raccontato Dostoevskij, è dissociato dalla realtà (con nome parlante: Raskol’nikov) e può trovare la salvezza solo nell’amore per il sapere (con nome parlante: Sof’ja); o individuare nell’idiota (nello jurodivyj; nel mistico) il depositario di tale amore per il mondo, per il sapere, per la bellezza. Ed è grazie a questa equivalenza che Dostoevskij ha potuto congegnare una formula generica tanto pregna di significato quanto inadatta a esprimerlo: la bellezza salverà il mondo. Sono formule che si imprimono facilmente nell’immaginazione del popolo, e Dostoevskij, come osserva con disprezzo Nabokov, scrive per il popolo, come fa ogni mistico. È il patimento, rabbioso e contorto, del mistico che ho cercato di restituire nel mio ritratto.
Pier Paolo Di Mino
Nell'immagine, Fëodor Michajlovič Dostoevskij ritratto da Veronica Leffe.