CANONE #1 - HERMAN MELVILLE
La notte era stata tremenda: il sonno si era mischiato alla veglia, il sogno alla realtà, e dalla confusione ne aveva ricavato dolore allo stomaco, alla testa, a tutto il corpo: era un dolore, gli pareva di ricordare, che si ripeteva da millenni come un crimine esecrabile.
Per tutta la notte Melville non aveva fatto altro che cercare di svegliarsi; infine (forse si trattava di un fenomeno di sonnambulismo) si era ritrovato all’aperto, dentro la luce sfatta della notte. Ora camminava fra i campi, che si gonfiavano di vento. Sarebbe piovuto presto. Melville alzò il viso. Da settentrione nuvolaglie nere avanzavano veloci nel cielo nero; ma, si disse, il cielo è ostinato. Pensò che aveva fatto bene a uscire di casa per fare una passeggiata. Devo decongestionare la mente, rifletté. È troppo carica: l’eccesso di parole, di studio, di vocabolari, vocabolisti, dizionari; e le smanie dei filosofi: e la Bibbia, dove c’è tutto; e Shakespeare, vero amico dell’uomo: al dunque, tutto questo studio può avermi causato un tumore spirituale. Bisogna camminare per decongestionare, ma non è facile, perché tutto è gonfio, e io cammino, solo, e i pensieri, in questo silenzio sterminato, si infiltrano e mi chiudono dentro di loro, mi spaccano i pori della pelle e mi gonfiano: tutto è pieno di pensiero, di ragione, di ragione seminale, di logica spermatica.
Erano giorni, settimane, che Melville cercava di arrivare all’immagine esatta, senza riuscirvi. Straziato dalle metafore. In questo, pensò, consiste il nostro mestiere: lasciarsi straziare dalle metafore. Una luce tenue e grigia sbadigliò sui campi, doveva essere il dilucolo; poi, però, divenne di nuovo tutto buio. Non basta affermare che tutte le cose sono piene di dèi, rifletté. Questi dèi, va detto, sono ragione seminale: e, insieme, sono il liquido seminale denso e fertile da cui la materia ha origine. Ragionò ancora: da una stessa radice, in latino, deriva la parola che indica il bosco, che sta per la materia densa e oscura, e la parola che significa la luce, la luce senza corpo, che guarda l’ombra dall’alto. Lucifero è nello stesso tempo amore e ragione, e, se separiamo l’amore dalla ragione, ecco che cadiamo malati di lue in qualche postribolo o preda del male ontologico e metafisico. O schiavi di Venere, o schiavi di Satana, o liberi in Lucifero. Ma qual è l’immagine esatta?
Cominciò a piovere. Melville affrettò il passo e raggiuse una grossa quercia fronzuta. Si riparò sotto i suoi rami. Deve essere un’immagine come quella di Lucifero, si disse. L’uomo comune vi vede il male, la parola è davanti a lui, limpida, ma l’uomo comune non capisce, si confonde, e così per lui ciò che porta la luce, la luce che dà forma ai corpi che l’attraversano, è male. L’uomo comune è fatto a immagine e somiglianza di un delirante demiurgo gnostico, o di un titano orfico. Per l’uomo comune la luce e il corpo sono il male. Ci sono, si disse. Se il bene, per l’uomo comune, è male, ciò che egli rappresenta come male è, di necessità, il bene: il leviatano allora è il bene. Finalmente ci sono arrivato. Stava piovendo forte.
La pioggia cancellava ogni cosa, e faceva un rumore che metteva paura, che faceva tremare l’aria. Melville si accese la pipa, e prese ad almanaccare: vediamo, il leviatano, sottratto alla simbologia politica, ricondotto a un significato naturalistico, è una balena, una grossa balena bianca. Una massa di carne bianca come la luce, che guizza fra le onde spumose e veneree. Una balena come immagine mostruosa del liquido e della ragione seminale, della materia e dello spirito. Mi convince, si disse. Gli eroi del dramma gli erano già noti da tempo, in astratto, ma ora, grazie a questa idea della balena tutto si precisava. È il dramma che viviamo da millenni, si disse, vivere schiavi della materia o, che è lo stesso, dello spirito; oppure vivere nella continuità fra materia e spirito. Ma solo il grande individuo, che è tale perché sa che non esiste individuo alcuno, libero perché sa che non esiste libertà alcuna, sa vivere in questa continuità. Da una parte c’è il grande individuo, l’uomo in sé, Ismaele, che attraversa il mondo e, nello stesso tempo, lo guarda da lontano. Si ferisce, lo guarda, se ne innamora, lo conosce. Dall’altra parte c’è l’uomo morto, l’uomo comune, che digiuna per farsi meglio dimagrare l’anima, mai sazio di rinunce, con i suoi piani aziendali e tutto l’orrore che porta in giro: Ahab. Gli farò gettare via la pipa alla prima scena, per disprezzo di tutti i piaceri mondani, e poi lo farò lanciare con la foga dei matti contro la vita: contro la balena bianca. Ahab ha una missione: distruggere la vita in nome della giustizia, del bene, dell’onestà, della purezza, della grandezza, della crescita, dell’espansione, o di un qualsiasi altro articolo di fede orfico, gnostico, idolatrico. Per lui tutto è spirito, o tutto è materia: tutto è morto. Alla fine, la vita distruggerà lui: su di Ahab si alzerà, spumoso e indifferente, il mare. Lo ricoprirà. Sarà l’eterno oblio.
Aveva smesso di piovere. Melville si disse che era il caso di tornare a casa, il cielo era ancora nero, ma doveva essere l’alba. Si sentiva stanco, avvelenato di sonno. Si incamminò. Mentre scivolava fra i campi silenziosi, pensava che anche il più piccolo particolare quadrava, finalmente. Niente può dare una pace maggiore, pensò, che avere in mano la storia che si vuole raccontare. Pensò a Ahab. Ha un grande piano. Ha una visione e una missione. Ha una strategia. È bravo a comunicare ciò che vuole e a farsi ubbidire. È puro, forte, coraggioso. È un pazzo. Ahab incarna l’assenza di ragione. Ismaele invece è la ragione in carne e ossa. Affronta il viaggio in nave, attraversa la tragedia, si lascia attraversare dal male, ma osserva, senza giudicare, osserva solo: per farne il racconto. A questo serve la ragione: a fare il racconto. Il racconto, si disse Melville, di come l’uomo comune ha vissuto per millenni nel dolore, recitando meccanicamente sulla scena di un crimine senza uguali, nello spreco e nel dolore, fino alla catastrofe finale, per lasciare spazio all’uomo in sé, che irrequieto cammina per il mondo e ne contempla le mille cose e dà loro forma di parole. Questo romanzo, alla fine, non sarà solo un dramma, ma anche un’enciclopedia. Questo romanzo deve essere anche il catalogo ragionato del mondo. Non basta raccontare la tragedia dell’uomo comune e descrivere la sua fine: è necessario raccontare il mondo, così da consegnarlo all’uomo in sé, che è fatto a immagine e somiglianza di Dio, e che è posto nel mondo per lavorarlo e custodirlo. Melville si accorse di avere freddo. Aveva i vestiti bagnati e sporchi di fango, e la stanchezza gli mangiava le ossa e la carne: non riusciva a tenere gli occhi aperti per il sonno, ma era felice, si sentiva in pace: ora aveva la storia in ogni dettaglio.
I pensieri della mia mente, osservò, sono un’unica cosa con i pensieri del mondo. È senza senso distinguere fra dentro e fuori, si disse. Ciò che è fuori è dentro, così come la notte è giorno e il giorno è notte. Nulla esiste in sé stesso. Lo spirito dell’uomo e la natura: ma no, non c’è nessuna distinzione. Le analogie che legano i miei pensieri ai pensieri del mondo sono infinite e inesprimibili. Non il più piccolo atomo si agita o vive nella materia senza avere il suo bel duplicato nella mente.
Gli pareva quasi di camminare addormentato, ma sentiva una pace e una calma muta nel sangue. Vide di lontano casa. La vita, pensò, è un viaggio che è diretto verso casa. E così affrettò i passi, e rientrò a casa, e subito sentì che svanivano la stanchezza e il sonno, perché adesso, nel sogno, il crimine esecrabile ripetuto per millenni era stato abolito. Il cielo era intessuto con la luce della prima stella del mattino, e, sotto il cielo, le mille cose del mondo erano così belle che trascorrevano come fanno soltanto le cose belle
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Mentre cercavo di comunicare la mente di Melville, la sua vissutezza di quell’esperienza della continuità e perennità che si incontra nell’immediatezza e che coinvolge l’intero complesso immaginale, mi sono domandato: in quale momento della vita Melville ha incontrato tale immediatezza? Si può congetturare che, giovanissimo, si sia sentito travolto da una domanda spaventosa, lontana dall’essere la rappresentazione concettuale di una necessità astratta: «che cos’è la vita?». In questa domanda la vita è posta come un oggetto che non è tale, non essendo diverso da chi pone la domanda. Da questa domanda ne segue subito, senza soluzione di continuità, un’altra: «come si deve vivere?». Giovanissimo, dunque, Melville deve avere incontrato questo momento estetico ed etico, che impone di percorrere continuamente, con coraggio e devozione, la pericolosa via che porta alla verità per poi, con pericolo maggiore, tornare indietro e riferirla agli altri. È questo il percorso che conduce dal sapere alla conoscenza, e dalla conoscenza al sapere. Uso la parola «sapere» secondo la lezione dell’Onians, che ne chiarisce in termini etimologici il significato riconducendolo a quello di «ciò di cui una cosa sa», il suo sapore: il sapere dunque come anima profonda e indicibile di ogni cosa. Per «conoscenza» intendo quindi l’azione volta a guadagnare cognizione di quell’anima cercando di rendere dicibile ciò che non lo è per mezzo di strumenti razionali. Questo percorso continuo, ora rappresentato come un flusso, ora come un movimento circolare, è stato nella nostra tradizione mitologica ipostatizzato dal rapporto fra Dioniso (il sapere) e Apollo (la conoscenza); e, ancora, nella tradizione filosofica, dall’opposizione e congiunzione delle figure di Platone e Aristotele (Dante varia l’opposizione e congiunzione usando le persone di san Francesco e di san Tommaso). È questo il percorso compiuto, agli albori della nostra civiltà, da chi veniva chiamato «sapiente», come Eraclito, o Parmenide, o Empedocle; e poi, in èra cristiana, «filosofo mistico»; e, in età rinascimentale, «mago». Ed è questo il percorso compiuto da Melville: un percorso che conduce lo stesso identico tipo umano nello stesso identico luogo, ma che implica l’impegno a cercare la quiddità in tutto e quindi l’individuazione di ogni cosa, a cominciare da sé stessi, sforzandosi di tradurre il sapere in una conoscenza utile e comunicabile per la propria epoca. E così Melville, travolto quando era ancora verde pisello (per usare una sua espressione) dall’immediatezza della vita, si è trovato costretto, ormai uomo maturo, a tradurre quell’esperienza in un’opera letteraria vasta e onnicomprensiva, congegnata come un dispositivo posto a salvaguardia del mondo contro l’aggressione che la modernità rappresenta per esso, e che possiamo pensare grosso modo declinata in tre momenti: un momento estetico, ossia Moby Dick, in cui, secondo la lezione dei primi sapienti greci, materia e spirito sono raccontati come l’identico oggetto di un’operazione conoscitiva circolare (realmente enciclopedica); uno etico positivo, Billy Budd, in cui è rappresentata la figura dell’uomo che ha abolito la differenza fra chi si chiede cosa sia la vita e la vita stessa, e che si propone, dunque, come uomo capace di vivere realmente perché capace di sapere e conoscere; uno etico oppositivo, Bartleby lo scrivano, in cui viene indicata l’azione pratica che si deve operare nella decadenza dell’uomo nell’èra moderna: diventare (così si direbbe nella tradizione vedica) un rinunciante.
Pier Paolo Di Mino
Nell'immagine, Herman Melville ritratto da Veronica Leffe.