PROLOGO E BREVE NOTA SULLE IMMAGINI
PROLOGO
Vorrei premettere alcune parole doverose. Canone prosegue il lavoro di evocazione iniziato con Sette racconti, pubblicato in Appunti per «Lo splendore». Anche Canone, come Sette racconti, raccoglie i ritratti di quegli spiriti che costituiscono la bibliografia ideale di Lo splendore: il suo canone.
È per me quindi necessario, ora che Lo splendore ha visto la luce, evocare questi spiriti. Il gesto può essere inteso come superstizioso, ma vale allora la pena ricordare che la superstizione (così avverte Baudelaire) è il deposito di tutte le verità. È del resto comprensibile il bisogno di una speciale protezione nel momento, malinconico per l’autore, in cui si rende pubblico il suo lavoro. Forse ciò di cui soffro non è solo malinconia, ma un turbamento: pubblicare sembra, infatti, imporre una forma finita a una storia; sebbene, è vero, sia impossibile che una storia trovi davvero la sua forma finita: lo impedisce, per prima cosa, il ruolo che, nel processo che dà vita a una storia, gioca chi la ascolta o legge variandola infinitamente in un sempre mutevole sistema di valori morali e intellettuali; inoltre, se la storia ha la fortuna di incontrare l’interesse di collettività linguistiche estranee a quella per cui era stata concepita, questa verrà radicalmente mutata; e non diverso è il caso in cui la storia entri in una tradizione: la necessità di rivederne le espressioni e la cadenza per adattarle ai tempi sarà motivo di variazioni infinite. L’ontologia del fenomeno letterario può, inoltre, toccare la coscienza dell’autore della storia: e dico questo per confessare che la mia inclinazione all’ossessione, tipica di un superstizioso, mi indurrà forse a tornare, nel tempo, sulle immagini e sui lemmi con i quali ho tentato di comunicare una vissutezza e di tradurre in conoscenza un sapere. Eppure, una volta affermato tutto questo, dobbiamo ammettere che pubblicare dà, sia pure per un momento, forma finita a una storia, e somiglia dunque alla fine violenta di un gioco, o dell’estate, o della giovinezza; somiglia a volere imporre limiti alla provvidenza, a costringere l’infinito nel finito, ad abbandonarsi a non so quale momento di luminosa resa alla realtà materiale della vita: somiglia a morire. Non posso fare quindi a meno di convocare a mia tutela e protezione quegli spiriti che hanno presieduto alla fatica, lunga e paziente, per arrivare alla pubblicazione del primo volume di Lo splendore.
Se in Sette racconti gli spiriti solerti e melanconici che hanno agito sul mio lavoro sono stati evocati in qualità di prototipi eterni e ineffabili della lotta contro la disumanità e la barbarie, in Canone la convocazione pneumatica ha interessato quegli scrittori che, nel momento di massima aggressione al mondo e alla realtà, ossia nell’età moderna, concependo con coraggio non diminuibile, con intelligenza offesa ed esaltata, una letteratura pensata come scienza conoscitiva della realtà, hanno cercato di salvare il mondo. È stato dunque necessario per me seguire la loro lezione, dal momento che l’intera trama di Lo splendore è sorretta da una fantasia di salvazione: dal momento che questa trama si risolve nell’esplorazione di tutte le possibilità di salvezza offerte dalla conoscenza della realtà quale rete sottile e invisibile che dà forma a tutti quegli enti o individui (così li definiamo per comodità espressiva) che, al di fuori della rete, non sono e non possono essere. L’idea stessa di salvezza intrinseca a Lo splendore (la salvezza dalla morte istituzionalizzata resa dogma sociale nell’età moderna) consegue dalle opere di questi scrittori; opere concepite non come oggetti estetici formali o come compilazioni didascaliche di concetti ideologici o morali, ma come forme armoniche e razionali di conoscenza espresse in racconti coincidenti nella forma e nella sostanza con la realtà. Gli autori di cui racconto l’apostolato umano e sul cui operato ragiono in questi appunti non esauriscono il canone con cui ho concepito il mio lavoro (avrò forse modo in altre occasioni, deo concedente, di ragionare su un canone completo), ma ne rappresentano quella parte più vicina a me nel tempo e più avvertita sulla tragedia in atto: la fine della nostra civiltà.
Ritengo che solo la civiltà, assolvendo il compito di rendere commensurabili i beni spirituali e quelli concreti della comunità a cui dà forma e vita, possa garantire la sopravvivenza agli uomini: o, forse, la perennità. Contrappongo alla civiltà la società contrattualistica tipica della modernità, garanzia per l’uomo unicamente di dissoluzione, prima spirituale e poi materiale. Una società contrattualistica non può fare altro che crollare, presto o tardi, sotto l’impulso della propria premessa, quel cupio dissolvi gnostico che risolve l’uomo, inteso come sbaglio o peccato o errore evolutivo, in un ente astratto da redimere fino alla dissoluzione per mezzo di regole, tabù, divieti, algoritmi, fantastiche proposizioni fini privi di altro senso e significato se non quello di essere regole, tabù, divieti, algoritmi, fantastiche proposizioni e fini che hanno l’ unico scopo di abolire la realtà.
La ribellione contro la modernità, contro la barbarie della società contrattualistica, espressa attraverso un lavoro letterario fondato sulla traduzione del sapere del mondo in conoscenza umana, è un atto d’amore nei confronti della realtà: è questo amore che ha reso gli autori di questo canone ausmerzen, asociali, reietti, vagabondi, esuli, naufraghi, uomini del sottosuolo, o senza qualità, o difficili; uomini privi di energia sociale, inutili per la società a cui si sono ribellati; uomini che possono solo dire: preferirei di no; è questo amore che li ha lasciati intatti e integri nella più pura natura umana: quella di indagare il mondo come cacciatori di stelle, come sapienti, come detective che non arriveranno mai alla soluzione, come maniaci della numerazione perfetta dell’essente, come mistici, come poeti. Solo questi uomini difficili e senza qualità, questi cacciatori di stelle e maniaci della numerazione perfetta, potevano sognare e realizzare una letteratura come traduzione del sapere in conoscenza. Eraclito, descrivendo i rapporti che intercorrono fra la conoscenza e il sapere, mostra di dare importanza a entrambi i momenti: se è vero che non c’è conoscenza senza un sapere su cui esercitarla, è vero anche che il sapere, senza conoscenza, si nullificherebbe. La conoscenza si ha attraverso l’esperienza, che è necessaria ma non sufficiente. Per esperienza intendo quell’operazione razionale che principia nell’osservazione di un oggetto, prosegue con la riflessione su di esso, e termina nella sua descrizione. Il sapere si ha invece in un gioco immediato e folgorante fra la mente e la realtà, in cui la lenta e faticosa macchina dei sillogismi si rompe per dare spazio a un organismo capace di connettere tutto con il tutto, e rendere vicine le cose lontane. Il rapporto giocoso e violento fra conoscenza e sapere presiede all’operazione letteraria di creazione di idee, ossia immagini e parole, da cui successivamente derivano le nostre filosofie, e le religioni, e le scienze, e le ideologie. Si conosce dunque, si ha esperienza di un oggetto, quando l’oggetto in questione è prima sottoposto a quel tipo di operazione razionale che è la riflessione e, poi, a quell’altro tipo di operazione razionale che è la sua traduzione in un racconto. Va da sé che, per fare esperienza di qualcosa, serve solo apprendere i piani e docili strumenti della logica e della retorica. L’oggetto in sé, però, è materia del sapere, e, a tutt’oggi, nessuno è stato in grado di congegnare piani e docili strumenti che diano accesso al sapere. Fin dall’antichità in questo accesso è stato visto, anzi, qualcosa di pericoloso e morboso, riferibile a deficienze indotte o autogene. Questa fantasia è sopravvissuta fino ai nostri giorni: il sapiente, o veggente, o mistico alterato dai farmaci ergotici di Eleusi o affetto da male sacro è divenuto, nell’epoca borghese, il poeta deaureolato, il santo bevitore, il cane romantico. Solo il sapiente, qualsiasi maschera secolare indossi, può praticare una letteratura che sia espressione del sapere, e farlo in contrapposizione a quella letteratura regolare e normalizzata della società contrattualistica che Hermann Broch classificava come letteratura Kitsch. Broch definisce Kitsch l’arte per l’arte, in quanto espressione di una patologica irresponsabilità morale legata a una disfunzione estetica (l’estetismo). Opposta al Kitsch, secondo Broch, si trova l’arte didascalica, che, pur essendo espressione di un umano sentimento di responsabilità, soffre i difetti di una totale vacanza dall’estetico, e cerca l’etico solo attraverso l’etico. Una letteratura che si collochi a metà tra queste due istanze, media di istinto e ragione, sarebbe, secondo Broch, garanzia di una letteratura capace di difendere l’uomo dall’imbarbarimento, dall’annullamento della sua umanità, dalla degradazione delle sue funzioni psicologiche, dall’irrigidimento esiziale della sua anima in un io psicopatico. Sebbene prenda le mosse da Broch e usi il suo linguaggio, intendo però il Kitsch come comprensivo sia dell’arte per l’arte che dell’arte didascalica, convinto che una letteratura che sia racconto del mondo non sia una via di mezzo fra l’arte per l’arte e l’arte didascalica, ma una via del tutto diversa. Ritengo infatti che si possa avere vissutezza dell’intero complesso della realtà e darne quindi espressione solo usando l’intero complesso delle funzioni immaginali: e le mediate, ovvero la ragione e i sentimenti, e le immediate, ovvero i sensi e l’intelletto. Abbiamo vissutezza del mondo solo attraverso i sensi e l’intelletto, e possiamo dare espressione a questa vissutezza in forma di conoscenza solo attraverso la ragione e i sentimenti. È per questo motivo che ritengo tanto l’arte didascalica quanto l’arte per l’arte un danno esiziale per la facoltà immaginativa. Entrambe, infatti, agiscono unicamente sulle facoltà mediate, modulandosi secondo le modalità del pensiero razionale e di quello sentimentale al fine di impartire stilemi morali, la prima, e cosmetici, la seconda, senza che questa operazione sia connessa alle funzioni immediate: il pensiero che esprimono, al dunque, non ha contenuto, ed è riduzione del pensiero a mera operazione logica applicata alla sfera delle emozioni: un’operazione formalistica e vana il sufficiente per imporre un’idea di realtà come vasto campo astratto, vuoto di significato e senso e forma e essenza intrinseca. Per salvare il mondo serve solo ritrovarlo e conoscerlo grazie all’intero complesso delle nostre facoltà umane: attraverso la facoltà immaginale.
È giunto il momento di fare ricorso appunto alla facoltà immaginale, e di dare voce agli autori del mio canone.
Pier Paolo Di Mino
BREVE NOTA SULLE IMMAGINI
Hans Doré salva tutto il
mondo se tutto il mondo
salva Hans Doré.
Pier Paolo Di Mino, dal
servizio di TG2 Storie su
Lo splendore
Lavorare con Pier Paolo Di Mino è sempre una sfida perigliosa: con lui non si tratta di realizzare semplici ritratti o semplici illustrazioni: operazioni non troppo difficili per chi, come me, ha dimestichezza con l’alchimia. Vedete, noi alchimisti siamo abituati ad avere confidenza con gli oggetti semplici, operiamo restando al caldo, nel nostro laboratorio, dove c’è un bel forno che riscalda tutto l’ambiente, l’athanor, ed è piacevole rimanergli accanto mentre ci concentriamo sulla materia. Invece stare (o almeno tentare di stare) al passo con il ritmo furibondo che mantiene Pier Paolo nella sua arte di «cercatore», significa esercitare virtù molto più dinamiche: serve coraggio ed è molto utile, soprattutto, dimostrarsi abili nel rimanere saldi qualsiasi cosa accada: un po’ come essere una persona esposta a qualcosa di travolgente; qualcosa che scuote, strapazza, strattona: una tempesta, un’inondazione, o un diluvio. Ma senza il conforto e il riparo dell’arca.
Dare figurazione allo scorrere dei suoi ragionamenti, fissare in un’immagine il fluire del suo pensiero, significa essere, con Pier Paolo, in prima linea, in avanscoperta nella ricerca della verità. Significa avere, prima che buon talento nell’arte della pittura, ottimi polmoni per restare in apnea abbastanza a lungo, in modo che il dover riprendere fiato non ti costringa a tirare fuori la testa troppo presto, e comunque non prima di aver preso nota del necessario.
Fare il ritratto a questi sette scrittori è stato come intraprendere un’esplorazione nell’abbacinante: essi volgono lo sguardo in una materia incandescente, la realtà reale, la verità; intercettano “la parola della Dea” che è pura visione e tornano sempre indietro con coraggio per farcene fare esperienza. Ecco, diciamo che la loro opera non è una lettura comoda. Allo stesso modo, non è comoda la lettura che Pier Paolo dà di questi spiriti magni: non è interessato alla loro biografia, alla storia della loro letteratura, al loro stile: semplicemente ne assume lo sguardo: si appropria del loro sguardo: i loro occhi diventano i suoi e tramite loro raggiunge un punto di vista assoluto e universale, va in ricognizione, alla ricerca del sapere. Accompagnarlo in questo viaggio significa essere testimone di quello sguardo: ed è quello che, di ognuno di loro, ho cercato di cogliere.
Veronica Leffe
Nell'immagine, la copertina di «Canone», elaborazione grafica a cura di Veronica Leffe.