VITA DI ENRICO IBSEN DI ALBERTO SAVINIO*
La prima volta che lessi (ero piuttosto giovane) Vita di Enrico Ibsen di Alberto Savinio rimasi senza dubbio colpito, per non dire turbato, dalla data di pubblicazione del librino: il 1943.
Il libro, infatti, utilizza la figura del drammaturgo norvegese per comporre una sbrigativa e più o meno fantasmagorica biografia che è, però, soprattutto l’occasione per una serie di divagazioni trasognate ma puntualissime (ma dovremo ammettere prima o poi con Leonardo che la fantasia è esatta o non è fantasia; e che per sognare bisogna essere dotati della virtù di una certa acribia), le quali divagazione conducono con il loro moto irresistibile verso un centro molto stabile, che costituisce l’argomento dell’opera: la donna e il femminismo. L’argomento, però, è soprattutto il femminismo che, racconta e ragiona Savinio, è l’ultima, la più violenta e crudele, invenzione del maschio contro la femmina. Dunque, il mio turbamento (parlavo di questo) stava tutto nel fatto che mi sembrava incongruo o assurdo o perfino immorale che qualcuno trattasse un tema del genere in piena guerra, in mezzo a tutto quell’orrore e quei morti, mentre alcuni eroi vendevano cara la pelle, e via dicendo; mentre, insomma, gli altri facevano qualcosa di molto più civile o nobile o comunque e soprattutto più utile. Il mio turbamento, voglio dire, stava nel fatto che non potevo non vedere con sospetto la piccola fatica letteraria di Savinio dal momento che ero chiuso nella fantasia dell’utile e del civile e dell’ideale e del ben educato, e di qualsiasi altra norma conforme: diciamo, mentre ero chiuso in una fantasia puritana e conformista, con tutto quello che ciò comporta in termini di resa incondizionata al disumano.
Vale poco se cerco di giustificarmi dicendo che la mia generazione ha prediletto sempre e comunque questa resa incondizionata al disumano, e che quindi ero poco attrezzato per capire che Savinio, con questo lavoro, cercava appunto di non arrendersi, e cercava di farlo colpendo con precisione il bersaglio, il punto nodale di tutta la questione, o di tutto il problema, di quel problema che, nel momento in cui scriveva, aveva preso la forma di una guerra mondiale: ovvero il destino della donna, o meglio del femminile, nella nostra civiltà progressiva.
Pareyson, pochi anni dopo la fine di quella guerra, si domanderà come sia stato possibile, appena scampati al rischio di soccombere all’orrore del disumano, che in filosofia avesse vinto il positivismo logico, che di tutto si occupa meno che dell’umano: che è una filosofia disumana. E con Pareyson, quindi, ci potremmo domandare come è stato possibile che Kelsen abbia imposto la detronizzazione della giustizia dalla giurisprudenza (una legge è giusta non quando è giusta, ma quando la si sa imporre con le buone o le cattive, va da sé, contro l’uomo); o che qualche pubblicista sia riuscito a smerciare un mito come quello dell’utile (utile a chi?) o del benessere (ma come fa l’essere a stare bene per mezzo di oggetti che lo allontanano da sé?; come fa un uomo a rimare tale per mezzo di ciò che lo disumanizza?) e via dicendo. La risposta che possiamo dare a Pareyson, e a noi stessi, circa questa sconfitta dell’umano la troviamo, posso infine dire, appunto solo interrogandoci sul destino del femminile, del femminile in ogni donna e in ogni uomo, e in ogni cosa; o meglio, interrogandoci sul destino di quella figura femminile cui la nostra tradizione ha dato il nome di anima, o diversi nomi di dee, ma che potremmo chiamare anche immaginazione, magari esatta. In realtà è proprio una questione di esattezza pensare l’anima umana, o l’immaginazione umana, come una donna, dal momento che la più o meno dieci volte millenaria storia della nostra civiltà (conto il tempo a partire dall’unica rivoluzione effettiva della storia dell’uomo: il neolitico, dal quale ancora non usciamo) è sicuramente la storia della repressione dell’intero complesso immaginale della nostra natura, ma è anche la storia di come questa repressione è stata inverata sulla carne di tutto ciò che è sentito donna: la terra, prima di tutto, convertita in fruttifera madre da sfruttare (forse la prostituzione è davvero un lavoro molto antico, ma deve necessariamente derivare dalla precedente attività di qualche prosseneta, di qualche ragionevole ragioniere che sa mettere a frutto e sfruttare bene le cose); e quindi la conversione di tutte le donne in madri, mercé la legge del matrimonio, capitolo non piccolo sul registro contabile del patrimonio; e poi, in tempo di basse voglie di assoluto, all’inizio dell’era volgare, l’auspico gnostico che la donna si faccia uomo, a maggiore gloria dell’igiene e dell’onestà e dell’efficienza, e quindi dell’usufrutto e utile e benessere.
Questo auspicio è quanto realizza infine il femminismo, ed è certamente quindi non per distrazione che Savinio, mentre pativa davvero l’orrore di quella guerra, scrive questo libro. Certo, Savinio è stato certamente guidato in questa sua ben determinata azione letteraria da una qualche dea, anzi di sicuro da quella Dea Bianca sulla quale, proprio attorno al 1943, stava cominciando a lavorare Robert Graves. I due libri dovrebbero essere letti insieme, per godere di due stili d’amore diversi, quello gentile e cortese, molto italiano di Savinio, e quello focoso e ciarliero di Graves. Ma a questo punto, se vogliamo scuoterci da dosso le polveri umilianti della resa, a ognuno di noi tocca scegliere il proprio stile di amore. È sempre possibile congetturare che una dea guidi anche noi.
Vita di Enrico Ibsen, Alberto Savinio, Piccola Biblioteca Adelphi, 1979
Pier Paolo Di Mino
Illustrazione di Veronica Leffe
*L'articolo e l'illustrazione sono apparsi originariamente su TerraNullius, nella rubrica “La Biblioteca Essenziale”.