ERACLITO, L'OSCURO*
Eraclito è stato colui che per primo, e in maniera esattissima e perentoria, ha affermato che l’uomo ha una sola possibilità concreta di vita, e che questa possibilità si trova in quell’identità perfetta fra pensiero e realtà che si produce solo per mezzo della poesia.
La cosa, per quanto possa sembrare oscura a chi non è chiara (tutta qui la fama di oscurità che avvolgeva Eraclito), potrebbe essere detta anche in questo modo: l’essenza della vita è la sovrabbondanza, il sovrappiù, la crescita continua. L’unico strumento, dunque, che può evocare o produrre o aderire alla vita è quella modalità di pensiero particolarmente adatto a produrre crescite matematiche (algoritmi, metrica e cadenza, diverse combinazioni con numeri fantasmi: numeri, dico, che inseguono l’inarrestabile sovrappiù essenziale della vita). Questo strumento è la poesia, parola che designa all’etimo la produzione: una produzione volta al disvelamento della realtà. Una produzione, dunque, ben differente da quel tipo di sopraffazione della realtà che è la produttività seriale e industriale che oggi investe ogni ambito delle attività umane, dalla fabbricazione di tonno in scatola a quella di romanzi, dai romanzi alle bombe nucleari. All’uomo (ci dice dunque Eraclito) è concesso questo, di arrivare alla vita scoprendo la coincidenza fra realtà e pensiero nel suo punto essenziale: la sovrabbondanza. L’essenza della realtà come del pensiero, o diciamo pure l’essenza della vita è la sovrabbondanza. Solo per mezzo della poesia, quindi, che è produzione di inarrestabili crescite numeriche secondo figure e immagini, è possibile conoscere questa sovrabbondanza. E quindi vivere. Il contrario di vivere, ci dice Eraclito, è misconoscere e negare questa sovrabbondanza, come per esempio si fa per mezzo della logica e delle sue categorie. In sé per sé la logica non è un male, essendo all’origine soltanto una delle tante figure retoriche proprie della poesia. Il problema nasce quando, usandola in maniera impropria, scambiamo per reali le sue preposizioni, ovvero le categorie. Scambiare per reale la logica è utile a fabbricare prodotti industriali (o culturali, o finanziari, o sociali); è utile a convincere vaste moltitudini che sia necessario produrre e consumare tutto questo, ma non è utile a incontrare la realtà. Inutile dilungarsi ora su questo uso allucinogeno della logica. Potrei fare molti esempi al riguardo, ma preferisco esibire la più originaria e insieme terminale delle proposizioni logiche: chi è più forte sopprime chi è più debole. In questa proposizione godiamo il vertice della logica. Ci sono un forte e un debole accuratamente distinti, e una correlazione tra di loro correttamente operata. E c’è una soluzione finale a questa operazione: la catastrofe, la dissoluzione del genere umano, una fine miserevole per tutti.
Ma come può un uomo accedere al mistero della poesia? Penso che le maniere siano tante, ma che su tutte, nella sua semplicità, può risultare esemplare quella attraverso la quale ne fece esperienza Eraclito. Vediamo, com’è che avrebbe raccontato lui la cosa? Vi avrebbe fatto entrare nella sua piccola casa, e vi avrebbe avvertito che anche lì abitava ciò che è divino. E, quindi, avrebbe detto:
‹‹Un giorno, quando vivevo ancora nei boschi, feci un sogno. Non so se dormendo, o a occhi aperti. Nel sogno un uomo mi parlava di un’ombra. Pensai immediatamente che l’ombra di cui mi parlava rappresentasse qualcosa di oscuro, forse un concetto, che io dovevo rendere chiaro. L’uomo mi rise in faccia in maniera sguaiata, e mi disse: non essere ridicolo, un’ombra è un’ombra, e non è un concetto. E se fosse chiara, non sarebbe un’ombra. Chi ti ha insegnato a pensare in modo così approssimativo e rozzo?, mi chiese con disprezzo. La mia mente corse subito ai sapienti egiziani.
Dovete sapere infatti che, da giovane, prima fui educato da mio nonno Blosone e poi dai sapienti egiziani. Da nonno imparai, ancora bambino, a credere che un giorno sarei diventato il più sapiente della città. Avrei saputo tutto, e avrei ricevuto la sacra dignità del nome sacerdotale di re. Blosone mi raccontava le gesta di Androclo, il nostro avo. Di quando fondò la nostra città, Efeso. Mi diceva dei segreti che lo avevano reso potente. Fui istruito a questi segreti, e conobbi tutto degli dèi e delle dee, e di quelle scienze che l’uomo comune deve credere arcane e incomprensibili. Poi, quindi, per completare la mia istruzione fui mandato fra i barbari, che conoscono quelle leggi della parola che sanno incantare il popolo e tenerlo schiavo. Chi domina l’arte di queste parole, mi disse Blosone, è come un dio rispetto agli altri uomini. Lui vive, mentre gli altri sono solo morti. In Egitto appresi le leggi di quest’arte. Imparai, con dura disciplina e grave ascesi, a credere di potere e dovere fare quanto era necessario fare e inevitabile che si compisse, e accumulai quelle competenze e quei metodi che, se usati con efficienza e spregiudicatezza, rendono un uomo capace di infliggere a un altro uomo il suo volere. Forse, sarei diventato un tiranno come fanno i più, se, però, non avessi indovinato e capito che in quelle dottrine che avevo appreso fra i barbari c’era un grande male. Però, in realtà, non capii subito quale male albergasse in quegli insegnamenti. O meglio, non capii la natura di questo male. Riuscii solo a sentire che ve ne era uno. Per questo motivo, tornato a casa, dissi a mio nonno e a tutto il popolo, che, partito sapendo tutto, ora, invece, non sapevo nulla. Dunque, rinunciai alla carica sacerdotale di re a favore di mio fratello. Tenni per me come proprietà mezzo stadio di terra e due buoi. Nella piccola casa che feci costruire sulla mia terra invitavo chiunque, come faccio ora con voi, a cercare ciò che è divino. Il resto del tempo lo passavo, facendo mostra di disprezzare gli uomini, con i bambini. Giocavo con loro agli astragali. Eppure, anche così, sebbene mi dicessi che sottraendomi alle cose del mondo e disprezzandole di certo mi allontanavo dal male, sentivo di esserne ancora preda. Era così, perché un uomo è sempre preda di ciò di cui non conosce la natura. Non conoscere la natura di una cosa, significa farsi dominare e possedere da quella cosa. Fa testimonianza di questo il fatto che, per allontanarmi dal male, vi sprofondai ancora di più. Vendetti, infatti, la terra e la casa, e anche i buoi. Andai a vivere nei boschi, e, prima di farlo, con grande soddisfazione, convinsi a seguirmi anche Melancomo, che ai tempi era il nostro tiranno.
Ora so che sarebbe stato meglio convincerlo a essere un uomo felice e un capo capace di distribuire a tutti la propria felicità. Ora so che è stato un errore anche avere rinunciato alla mia carica sacra e poi essermi rifugiato in un bosco. Nulla di buono viene da un sapere che rende remissivi. In un sapere tale, la si chiami anche santità, c’è solo una grande vanità. Ma devo anche dire che tutto questo non lo avrei saputo se non fossi andato a vivere in quel bosco, dove un giorno ebbi quel sogno di cui vi dico, nel quale un uomo mi parlò di quell’ombra, e mi disse che era solo un’ombra, e stava bene così, paga e felice di essere un’ombra. Tutto è pago di essere ciò che è, mi disse poi. Soltanto l’uomo pare non esserlo, e questo è il suo male. Tu, forse, hai capito che c’è un male, ma non hai capito quale. Ed è per questo motivo che non ne esci fuori, continuando a praticarlo. Ti rendi conto che scambi per realtà le regole di un gioco enigmistico: una cosa è bianca o nera, buona o cattiva, bella o buona, e un terzo non si dà? Ed è così che ti imponi di stare nel mondo o di non starci, di sapere o di non sapere, e vuoi costringere un’ombra a essere un concetto, e vuoi rendere ciò che è scuro chiaro, e vuoi praticare non so quante altre operazioni pervertite di questo tipo. Poi, l’uomo mi disse anche altre cose nel sogno. Mi disse che abbiamo una sola possibilità concreta di vita, e che questa possibilità si trova in quell’identità perfetta fra pensiero e realtà che è possibile produrre solo per mezzo della poesia. Mi disse che all’uomo è concesso questo, di arrivare alla vita scoprendo la coincidenza fra realtà e pensiero nel suo punto essenziale: la sovrabbondanza. E mi disse che era possibile arrivare a questo soltanto grazie alla poesia, che è produzione di inarrestabili crescite numeriche secondo figure e immagini. E non ci sono solo le figure e le immagini, mi disse poi. Ci sono anche i gesti, per dire. Per praticare poesia e quindi un po’ di vita, mi disse, potresti fare questo: torna nella tua città, che è prigioniera dell’assedio persiano, e fa un gesto che sia pieno di vita, ovvero di poesia. La tua città ormai perde la sua libertà. Sai come è, e come non è: chi è più forte sopprime chi è più debole. C’è un forte che sta qui, un debole che sta lì, e c’è un’operazione logica che porta alla morte. Ma tu potresti fare un gesto pieno di poesia, e riportare tutti alla realtà.
Quando vi feci ritorno, tutta Efeso, dai nobili al più piccolo fra i popolani, era raccolta nella piazza per decidere la nostra resa ai persiani. Eravamo allo stremo. Tutti ci guardavamo l’un l’altro con disperazione. Tutto era chiuso nel silenzio dell’attesa cupa e paurosa. Io, però, anche se forse ancora dubitavo delle parole che mi aveva detto in sogno quell’uomo, o non le capivo appieno, ero ormai pronto a compiere un gesto. In realtà, il gesto fu spontaneo. O, forse, fu ispirato. Dovrei però meglio dire che il gesto fu semplicemente molto reale. Seguitemi su questo punto: la realtà è di sua natura così sovrabbondante, che quell’abbondanza e quel lusso che cercano gli uomini nella vita, e che è causa di povertà per i più, e di dolore e guerre, e per la mia città in quel momento di un assedio, è solo un pervertimento della naturale ricchezza del mondo. È la negazione di quella ricchezza. Penso che fu per questo che in me si aprì l’immagine di quel gesto così reale, e cioè così poetico. Come andò la cosa, dunque? Avanzai nel mezzo della piazza e, davanti agli occhi di tutti, presi dell’orzo strappandolo da terra. Poi, levai da una mensa un vaso pieno di acqua e vi triturai dentro l’orzo. Lo bevvi, deglutendo rumorosamente come farebbe un istrione a teatro. Dopo un po’, vidi i sacerdoti dei templi gettare per terra l’oro delle offerte, e le donne dell’aristocrazia gettare i loro gioielli. Vidi buttato giù il mercato. A nessuno, in quel momento, interessò più niente di ciò che, ritenendo di averne necessità e bisogno, aveva sempre chiamato: beni. Per vivere, pensarono tutti, non abbiamo bisogno di questo. Per vivere abbiamo già tutto. Perfino dell’orzo. A nessuno in quel momento interessò più ciò che aveva sempre ritenuto, scambiando le regole di un vano gioco enigmistico per realtà, ricchezza o lusso o abbondanza: questo è mio ben distinto da questo è tuo, e quella operazione che segue: sfruttamento e massacro. Tutti, quindi, e con sfrenata gioia, corsero a cercare la libertà e la vita. L’assedio durò ancora qualche giorno. Poi, i persiani, si arresero. Si arresero all’evidenza. Capirono di non potere vincere e domare una città i cui uomini non necessitano di cose false. Se ne andarono lasciandoci quali siamo. Ora siamo liberi››.
Pier Paolo Di Mino
Illustrazione di Veronica Leffe
*L'articolo e l'illustrazione sono apparsi originariamente su TerraNullius, nella rubrica "Santi, eroi & Scrittori", con il titolo di "Eraclito".