A COME ACHILLE*
Premessa
Penso che, prima di tutto, sia necessario sapere questo, che nella fisiologia degli antichi era data per scontata l’esistenza di una vena che partiva dal tallone e arrivava ai testicoli: una vena molto importante, perché senza di essa non era possibile l’amore.
Parlo, chiaramente, dell’amore vero, quello che, secondo Saffo, ti fa diventare pallido e verde e soffrire di gelosia e smania; quello che, osserva Platone, ti fa sempre sentire manchevole e ti riduce alla migliore follia; quell’amore che ha fatto esclamare al poeta e mistico Ikkyu, raggiunto il culmine della sua illuminazione: “non esitare, lasciati scopare, è saggezza stare senza far niente, salmodiando che merda!” Cito il grande maestro orientale per suggerire che questo amore è quello che davvero riguarda tutti. Anzi, che riguarda tutto il mondo, altro non essendo il mondo che il frutto del desiderio realizzato da ogni elemento di unirsi e dividersi con l’altro come in una bella sfrenata sudata battaglia d’amore: ed è per questo che chiamiamo il creato mondo, per dire che è mondo, cioè bello, come ogni cosa nata dal vero amore.
Esiste, però, anche un altro tipo di amore che non è né sudato né sfrenato; che non ti riduce alla follia, e anzi ti permette di rimanere molto saldo nella tua ragione e in te stesso, e che infatti chiamiamo anche universale, intendendo in questo modo che detto amore è indirizzato, alla lettera, verso solo e soltanto una sola persona (di solito molto sola), la quale, in una maniera o nell’altra, è sempre se stesso. Questo amore ha il solo fine di beneficiare se stessi, quello che si pensa e sente e crede, e chiede il coinvolgimento dell’altro solo nella realizzazione di questo fine. Ritroviamo lo spirito di questo sentimento in detti di diversi pensatori che suonano come “fateli entrare per forza” oppure “Dio riconoscerà i suoi”, e che, dalla lotta al sudato sfrenato paganesimo fino ai più recenti campi di concentramento, è costato, come per distrazione, la vita a parecchi miliardi di persone. Infatti, si dice di questo amore che vinca tutto (nel senso che lo stermina), non facendosi problema alcuno perfino a compiere il male pur di ottenere quel bene supremo che egli stesso è e rappresenta. Di questo secondo tipo di amore manca solo di dire che si ottiene schiacciando la vena che parte dal tallone e arriva ai testicoli.
La storia
Chiunque è in grado di immaginare che, senza meno, era mattino presto, molto presto. Un’ora in cui qualsiasi cialtrone sa trovare il tramonto nell’alba. Nella scena c’è il padre degli dèi, che appunto si concentra in questo esercizio enigmistico come un povero vecchio che cerca una distrazione qualsiasi dalla paura di morire. Il fatto è che soffre d’amore, e si sente proprio come morto: e nessuno più di chi è già morto ha paura della morte. Poi, però, arriva il peggio. Senza temere di entrare nell’ordine chiuso di questo dolore, anzi sbattendo le porte, gli si presenta davanti, imperiosa, madre terra, che comincia come al suo solito a lamentarsi e a piatire, parlando in maniera lacrimevole tutto il tempo, e il padre degli dèi nemmeno la stava a sentire, ma per niente, come zanzare e tafani e mosche nelle sue orecchie erano le parole di quella donna triste e grassa, finché all’improvviso, chissà come e perché, il padre di tutti gli dèi non si fissò su una frase di questa Madre Terra, che diceva: gli uomini sono tanti e rumorosi e io non ce la faccio più. Non ce la faccio più. Non ce la faccio più. E, così, il dio sentì che riceveva come una santa sveglia, e cadeva in un coccolone mistico, e si ergeva fulminato da un’illuminazione: allontanerò da me questo dolore vendicandomi contro tutti per averlo subito, si disse. E, poi, fregandosi le mani, esclamò: mamma cara, stai tranquilla che ora ci penso io.
Cosa era successo
Cosa era successo? Niente che non succeda a chi è vivo, ma ognuno è sempre libero di prendere le cose a modo suo, nel bene come nel male. Per esempio Giove l’aveva presa male, e anche Nettuno. All’inizio no. All’inizio tutto sembrava promettere il meglio. Prima di tutto, perché Teti era poco chiamarla bella: aveva uno sguardo che, se ci cadevi dentro, nulla ti poteva assicurare che poi ne riuscivi fuori; aveva il gusto per quel tipo di battuta allegra e amara che ti trafigge il cuore non saprai mai se per il piacere o per il dolore; e inoltre camminando muoveva due natiche talmente tonde che capivi subito cosa cercano i geometri sulle loro carte smaniando la perfezione. Secondo punto, anche questo molto importante, a innamorarsi di Teti erano in due, inoltre fratelli, e sia Giove che Nettuno già si immaginavano la lotta per corteggiarla cercando ognuno di mostrarsi migliore dell’altro e magari qualche sganassone fra di loro e infine, perché no?, Teti che cedeva ad entrambi, vedendoli separatamente e di nascosto: e pure questo poteva essere molto divertente. E infine, invece, niente di tutto questo. Per tutto il creato corse un dispaccio, per giunta numinoso e profetico: qualsiasi dio fa l’amore con Teti, poi ne nasce un figlio più potente del padre che contesterà l’ordine costituito fino a rivoltarsi contro di esso in maniera vittoriosa. E così sia Nettuno che Giove, con la coda fra le gambe non in modo figurato, si ritirano dalla lotta d’amore.
Come ho già detto, potevano pure prenderla bene tutta questa cosa. Al modo di Ikkyu, magari; e dirsi: ma sì, chi se ne frega dell’ordine costituito e del potere, amiamoci tutti così! E invece no, rinunciarono all’amore e si misero a soffrire. Una sofferenza tale che Giove divenne cattivo e decise di vendicarsi contro l’amore. Ossia, nello specifico e nel dettaglio: contro Teti, alla quale avrebbe fatto sposare un uomo, in maniera tale che, secondo le usanze umane, una volta avuto da lui un figlio avrebbe smesso di essere donna e sarebbe divenuta madre (già se la vedeva diventare grassa e piagnucolante come Madre Terra); e contro gli uomini che facevano tutto quel rumore e quella guerra continua, a causa del loro desiderio d’amore, e che allora avrebbe sterminato facendo nascere un grande eroe che avrebbe fatto una grande guerra che avrebbe ucciso tutti. Eh, sì: lui non aveva avuto l’amore che cercava, e allora niente più amore per nessuno. Niente più nessuno.
Fu così che andò
E fu così che andò. Teti si sposò con Peleo, e divenne madre. Una madre che, secondo le usanze umane, stava sempre lì a prendersi cura preoccupata di suo figlio. In altre parole a Teti le si chiuse il baratro dello sguardo, le si seccarono le battute in bocca, e le si ingrossarono così tanto i fianchi e le natiche che uno capisce perché i geometri si stancano a un certo punto di cercare la perfezione sulle carte e si impiegano al catasto. E tutto questo per suo figlio che, allora, come minimo (pensò la dea) doveva essere un che di grande e grandioso, un essere eccezionale, il più grande degli eroi: e infatti il ragazzino crebbe su così. E si chiamava Achille.
E insomma, ecco il frutto di questo odio per l’amore: Achille, nato allo scopo precipuo di sterminare gli uomini e rendere questa dea una madre grassa e infelice. Due piccioni con una fava.
Qualcosa in breve sul ragazzo
Ora, qualcosa detto in breve sul ragazzo.
Il pargolo fu cresciuto fra mille vezzi e capricci, colazione del campione tutte le mattine e olocausti di bovini e ovini secondo le scadenze regolari dei pasti. Corollario igienico: lavarsi bene le mani e spazzolarsi i denti per non fare attaccare la carie e i sette peccati capitali al lavoro del tuo dentista; in genere lotta senza quartiere ai nemici invisibili, tipo batteri annidati nella sporcizia e nei cattivi pensieri pieni di donne nude la notte prima di andare a dormire. Teodicea pedagogica: fatti strada andando sempre dritto (sul modello del porco, più o meno); conquistare, allargarsi, crescere (sul modello di un tumore, più o meno); tieni tutto sempre sotto controllo e stai in guardia (questo per divertire e distrarre da tanta pena e sforzo con qualcosa di ameno come la paranoia). Inoltre, non ultimo per importanza, tantissima servitù sempre a sua disposizione che la madre gli insegnava ad usare in modo disumano al fine di sentirsi sottratto e superiore alle cose umane, e credersi quindi divino. Dunque, poi, a un certo punto Achille arrivò alla maggiore età, quando, stordito da questa istruzione e senza capirci più nulla, si vide prendere da un trabocchetto. Ossia, gli arriva il padre e gli dice: ormai sei un uomo, figlio di un re tra l’altro, e, se vuoi, papà ti compra una macchina e ti passa un mensile per andare a prostitute (ho chi consigliarti). Ma proprio in quel mentre arriva anche la mamma, che, come sente parlare di prostitute, figurandosi già il suo figlio di lei tutto baciato con i bacilli da quelle donnacce, fa: ferma, figlio mio, io ti offro una vita gloriosa. Ma il figlio tentenna ancora (debolezza umana), e Teti allora gli fa: ferma, figlio mio! E gli fece comparire davanti un esercito di mirmidoni, che significa formiche, come a dire che erano una manica di soldati scervellati senza più palle pronti sempre a ubbidire al capo, che marciavano, tanto per farlo ridere, con il passo dell’oca, ed erano vestiti tutti equipaggiati con tantissime tasche piene di bombe a mano e barrette di cioccolata, e se li spingevi in mezzo alla schiena dicevano cose tipo: l’unico indiano buono è quello morto; oppure: esportare la democrazia e costruire strade. Tutte cose così. E qui Achille, che fin da piccolo era stato abituato a sentirsi divino trattando in modo disumano gli schiavi, a vedere questo gran numero di schiavi pronti a morire in modo disumano a un suo comando, vacillò di brutto pendendo dalla parte della madre, che infine trionfò con: e inoltre ti rendo invincibile in battaglia con un mio trucco divino, e diventerai glorioso e famoso, e parleranno di te pure al telegiornale. E qui Achille cedette, e si fece prendere dalla madre, che lo infilò in un calderone che, a sentire Teti, era pieno di un liquido che lo avrebbe reso invincibile. In realtà era tutta una scusa per aggraffiarlo per il tallone e spezzargli la vena che conduce ai testicoli: o, detto in altri termini, per castrarlo.
Quando castri quella vena
Ora, come ho già detto, quando castri quella vena, muore l’amore vero sudato e sorge spontaneo quello supremo e universale, che vince tutto. Un amore fatto apposta per vincere, conquistare e distruggere tutto, per procurare lo sterminio. Questo tipo di amore ha bisogno solo di questo: di un motivo, di un pretesto, di anche solo una mezza scusa buttata lì per dare la stura al massacro. In fondo, con un po’ di fantasia (e nemmeno troppa) uno straccio di nemico che ti ha fatto indegnamente qualcosa lo trovi sempre. Dalle parti nostre, per esempio, di solito usiamo gli stranieri. Gli stranieri di quel tempo si chiamavano troiani. Il minimo che potevi dirgli era che fossero stranieri, e poi aggiungevi: levantini, truffaldini, e pure mezzi negri. Volendo elevare il tono del discorso per fare meglio la guerra di sterminio, per lo più, fin da quei tempi si faceva notare che sono un popolo privo di libertà e democrazia, e che trattano di volta in volta male o le donne o i bambini o i vecchi. All’epoca (ma mi pare pure adesso) la questione era che trattavano male le donne, quelle dei greci, in particolare Elena, che era stata rapita da un bel ragazzo molto bravo a fare l’amore e che a lei piaceva molto e che seguì nel suo palazzo imperiale per vivere una vita felice piena di gioia e franca allegria. E questa, secondo i greci, era una vera ingiustizia.
Non ci potevano dormire la notte: questi troiani, non conoscono la democrazia, mancano di libertà, e trattano male le donne, come dimostra il caso della povera Elena! Cioè, il giovane spartano usciva di casa con gli amici per andare a dare la caccia all’ilota, massacrare di botte lo schiavo contadino e stuprargli moglie e figlie, e niente: pensava all’improvviso a quanto fossero schifosi i troiani e gli passava la voglia di divertirsi. E pure gli ateniesi, metti la sera dopo che hai bevuto con gli amici e hai voglia di fare quella cosa, che torni a casa, chiami tua moglie: cara, hai presente le donne che fine fanno sotto le mani dei centauri lì sul frontone del Partenone? Dai!, un po’ di spirito patriottico, preparati a prenderle. Ma pure all’ateniese, all’improvviso, venivano in mente i troiani, questi infami, questi terroristi, questi esaltati, e non menavano più la moglie. Vite rovinate. E così alla fine si misero tutti d’accordo per fare la guerra. Si riunirono tutti i principi greci, discussero di come si erano da sempre preparati, distinguendosi con onore, alla guerra; e delle loro ambizioni supreme; e di come si sentivano divini. Venne anche fuori la storia che a ognuno di loro la mamma aveva fatto quello scherzetto per farli diventare invincibili o indistruttibili o imbattibili in battaglia, e con grandi risate acute e scintillanti da fiere cavalle da battaglia, partirono per radere al suolo Troia.
La guerra di Troia
La guerra di Troia. Non finiva più: fango, fango impastato nella noia, malaria e tristezza. Del resto, questa guerra non aveva altro scopo. Voleva solo non finire più o finire con la fine di tutto. Tutti questi ragazzoni, in testa alla fila Achille, sbattuti su un divano da campo ricamato finemente, che facevano strategie, studiavano mappe, discutevano di arte militare e del bisogno di una vita austera e di una mistica eroica che esalti l’individuo nel collettivo o meglio nella mischia confusa dello scontro in battaglia o nel gesto eroico concentrato e unico e perfetto, e intanto masticavano barre di cioccolata tirandole fuori da una delle tante tasche, e poi bevevano e poi litigavano fra di loro: Briseide, Criseide (non erano mai sicuri su chi fosse una e chi fosse l’altra; manco gli interessava: manco gli piacevano le donne). E poi ogni tanto mandavano a morire un po’ di ragazzi per la patria, questi mirmidoni, queste formiche, queste pecore, questi niente. E ogni tanto uccidevano pure i nemici. Ma non era questione: amici e nemici, le parole si somigliano, un po’ come si somigliano Briseide e Criseide, tutto uguale, tutto uguale visto con gli occhi dell’amore supremo universale: l’importante è che muoiano tutti.
Sterminateli tutti!, infatti pare che dicesse durante gli ultimi giorni di guerra Achille, stanco, ubriaco, lo sguardo nel vuoto, dopo aver torturato il centesimo bambino, aver rivisto fare per la millesima volta la scena del soldato che infigge un chiodo in testa a un altro soldato, o gli strappa i denti mentre è ancora vivo, o gli tira via gli occhi dalle orbite, e dopo ancora l’ultimo stupro, e l’ultimo incendio, e l’ultimo massacro, e ancora le urla delle donne e degli uomini e dei bambini, e tutto quel fango, fango impastato nella noia, malaria e tristezza. Sterminateli tutti, o rimaniamo qui per sempre.
Non fosse stato per Odisseo
E così sarebbe andata se non fosse stato per Odisseo, che non so se è proprio un eroe: secondo molti è solo uno zingaro, un pirata, un imbroglione. Non so. So solo che, se è vero che l’amore, quello supremo e universale, può vincere tutto, allora tutto può vincere l’amore supremo e universale.
Come ha dimostrato Odisseo.
Inutile girarci attorno, Odisseo era nipote di un ladro truffatore e aveva come avo quel chiacchierone di Mercurio, quindi imparò a parlare ancora in fasce e la prima cosa che disse alla madre, vedendola avvicinarsi ai suoi piedi con delle scarpette in mano, fu: bada, mamma, che come mi tocchi il tallone ti taglio la gola. Così crebbe imparando solo l’amore vero sudato, tanto che, quando conobbe Penelope (un pezzo di figliola che sapeva costruire qualsiasi cosa con le mani, mani che si capiva che sapevano fare bene l’amore), le disse: se mi sposi, intaglio per te il nostro letto nuziale in un ceppo di olivo grosso così, saldo perno dell’amore. E così i due si sposarono per amarsi sul serio, e fecero un figlio, e Odisseo stava benone, ma poi venne la guerra, e, un po’ per forza e un po’ per curiosità, ci andò pure lui. Per carità, non è che la guerra gli faceva schifo: a chi non piace menare le mani e darsi un po’ da fare e vedere cose in giro. Solo, lo sterminio no. E così, quando capì di aver visto tutto quello che doveva vedere, e che rimaneva solo il fango e la noia e tutto il resto, e che si rischiava il peggio, disse: va bene, ora la faccio finire. E la fece finire nell’unico modo possibile: vincendo. Poi tornò a casa, uno dei pochi. La storia è nota. Compreso quello che gagliardamente combinò ai proci. Pochi sanno, però, che la storia così come la si racconta manca di una scena, che puoi mettere come non mettere. Io di solito la metto, e la metto poco prima dello sterminio.
La scena: Odisseo torna e Penelope sta facendo l’amore con tutti i centoundici proci (qualsiasi alchimista vi sa dire che il numero è trinitariamente felice). E Odisseo urla: fermi tutti, vengo anch’io! Così si aggiunse alla grande battaglia d’amore, grazie alla quale, nove mesi dopo, nacque un dio. Il dio era Pan, che in greco significa tutto. A quei tempi che Pan era vivo, Achille, invece, con tutta quella voglia di morte che aveva addosso, era ormai morto.
Pan era vivo, e Achille morto. E questa storia dimostra che, a quei tempi, l’amore supremo di Achille ebbe la peggio e quello di Pan (il sudato e sfrenato; l’amore di tutti) ebbe invece la meglio.
E per tutti fu meglio.
Pier Paolo Di Mino
L’immagine è un dettaglio di "Achille ferito", scultura in gesso di Innocenzo Fraccaroli, realizzata nel 1832, oggi conservata alla Galleria d’Arte Moderna Achille Forti di Verona (la versione in marmo, che fu realizzata dieci anni dopo, si trova alla Gam di Milano).
*Questo articolo è stato pubblicato originariamente su TerraNullius nella rubrica Santi, eroi & Scrittori.