TALVOLTA SOGNO VITTORIO*
Talvolta sogno Vittorio. Non spesso. È sempre lo stesso sogno. Nel sogno è dato per scontato che in realtà sto rivivendo qualcosa che è davvero successo, o che un tempo, quando Vittorio era vivo, succedeva spesso.
Io e Vittorio ci incontriamo a Campo dei Fiori. Compriamo una birra, e andiamo a sederci sul gradino di un negozio chiuso in una piccola via nascosta dietro la piazza. Andiamo sempre lì. Vittorio dice che nella casa davanti alla quale sediamo abita una donna di cui parla una canzone di Ciampi. Secondo lui, però, non è mai esistita. Un amore vero, dice sempre Vittorio, per essere vero, non deve avere nessun oggetto.
Gli amori non corrisposti in questo senso rimangono l’ideale. Comunque, dice, vuole controllare di persona che non esista.
In realtà, la maggiore attrazione del posto è un cameriere che lavora in un ristorante da quelle parti. Non ho mai capito dove si trovi di preciso questo ristorante. Il cameriere sbuca all’improvviso da una strada dietro di noi, ogni dieci minuti. Beve a una fontanella, ride, ci guarda e se ne va. Io ho sempre l’impressione, però, che prima ci guardi e poi rida. Questo mi mette a disagio. Vittorio se ne accorge, se ne accorge che mi dà fastidio il sospetto di essere preso in giro da quel cameriere, e allora tutte le volte mi fa: è che non sai ridere, fai pena.
Questo sogno è solo un ricordo, penso sempre a questo punto del sogno. E poi penso: il passato è come un posto, più o meno nascosto, dove sono conservate tutte le cose belle che non tornano più: che sono belle perché non tornano più. Poi capisco, però, di pensare una cosa del genere solo perché suona bene, o per darmi un tono. In realtà, capisco che penso una cosa del genere solo per difendermi dal sarcasmo di Vittorio.
In fondo a mettermi a disagio è Vittorio. Ma non è il suo sarcasmo a mettermi a disagio. Anche quello, ma non solo quello. Anzi quello è davvero poca cosa. Il silenzio. Il silenzio è peggio. Possiamo passare un’intera serata, anche tutta la notte, seduti sul gradino di quel negozio a spiare se davvero non esista, o a sperare che davvero non esista, l’amore di un cantante morto di amore, senza dirci una parola. Se provo a parlargli, quando la serata prende questa piega, Vittorio fa semplicemente finta di non sentirmi. È come se non ci fossi.
I veri amici fanno così, mi dico allora. Stanno insieme otto ore e non parlano. Gli basta stare accanto. Gli basta dividere in silenzio una birra, come se nella birra fosse distillata l’essenza di tutta la vita. Anche questa è una cosa che mi dico perché suona bene. In fondo, mi dico, mica lo so se io e Vittorio siamo poi così tanto amici.
È di solito a questo punto del sogno, quindi, che cerco di ricordare come e quando e perché ho conosciuto Vittorio e saremmo diventati amici. Vittorio guarda una finestra davanti a noi, e sorride. Potrebbe essere il sorriso di uno che sta per piangere. Questo sorriso, penso, gliel’ho vito fare mille volte. Ho anche il ricordo di Vittorio che ride fragorosamente, e quello di Vittorio che ride sguaiatamente, e perfino quello di Vittorio che ride per finta. Ricordo Vittorio che mi cammina accanto, capace che si mette a parlare da solo per ore, forse improvvisa delle poesie o sta ripassando una parte o sta dando di matto. Cerchiamo prati, ma anche pezzi di bosco o magari valli nascoste dentro la città. Che ne sai?, mi fa, magari trovi un giapponese che non sa che la guerra è finita o un uomo preistorico che non sa che la civiltà è sorta. Magari hanno ragione loro, dice, la guerra non è mai finita, la civiltà non è mai sorta. A volte camminiamo per le bretelle della circonvallazione anulare. È per farti capire che abbiamo l’immunità. Non ci possono uccidere. L’immunità ce l’abbiamo dagli investimenti automobilistici e dai poliziotti, almeno da quelli piantonati davanti alle ambasciate. Ci mettiamo sull’attenti davanti a loro e gli sorridiamo o facciamo l’occhiolino o qualcos’altro di cui francamente mi vergogno sempre, e quelli non ci arrestano mai. Chiaramente ci piace passeggiare per il centro di Roma, specie verso le otto di sera. Ci piace per il tramonto. Una gran caciare per nulla, dice sempre Vittorio. Un po’ per i caratteristi, che sarebbero persone pagate dal Comune per fare colore, per fare confusione, per fare contenti me e Vittorio, persone come il cattolico biturbo, che è un musulmano ubriaco che camminava al contrario a piazza dei Cairoli. Glielo abbiamo chiesto mille volte volta cosa significa cattolico bitubo e perché cammini a quella maniera, ma alla fine ne siamo sempre usciti fuori con la certezza che le domande servono solo a fabbricare nuove domande. Oppure c’è il vecchio che scappa tutte le sere dall’ospizio e ci viene a cercare, a me e a Vittorio, perché gli piace farsi rimettere dentro solo da noi. È un fatto di intimità, dice. Oppure il Negro, uno spacciatore che lavora al Chiostro del Bramante, un filosofo, un vero filosofo rinascimentale: l’unico motore della vita, diceva, è il desiderio, e poi citava Ficino, e poi citava Pico, e perfino Rabelais. In verità, dice sempre il Negro, io spingo per sentire il calore umano. Chiaramente passeggiavamo anche in periferia. E poi c’era la cosa di prendere i trenini e fermaci ad ogni stazione e comprare una bottiglia di vino, risalire in treno, e scolarcela prima della nuova stazione. Ricordo, nel sogno ricordo, allora, di quando Vittorio si è ubriacato di brutto, e, ubriaco, all’improvviso mi ha dato uno schiaffo e allora io l’ho colpito in faccia con un pugno. Forse due pugni. Lo sapevo, mi fece allora. Te l’ho sempre detto. Sei una persona cattiva.
Ovviamente a questo punto del sogno ricordo anche i suoi spettacoli, i discorsi seri fatti con lui, e quelli senza senso, e quelli tanto per ridere, e quelli disperati. Ricordo quando un giorno, a pranzo, ero a casa sua, forse c’era anche altra gente, delle donne, e Vittorio stava preparando la pasta, e poi a un certo punto prende uno spaghetto dalla pentola per vedere se è pronta, e si scotta su una guancia, e gli rimane un segno rosso, e si mette a ridere e fa: sono Scaraface. Pronuncia: Scaraface. Poi Scaraface diventa un suo personaggio, e questo personaggio lo porta a teatro. Lo ricordo che piange. Lo ricordo carico di rabbia. Lo ricordo con suo figlio. Lo ricordo solo. Lo ricordo molto solo. L’importante è non pensare che sia una scelta, diceva certe volte. Essere soli deve essere una sconfitta. Lo ricordo ripetere mille volte questa frase, o mille volte frasi come queste, frasi senza senso, mi dico certe volte, frasi retoriche, penso certe volte, frasi che vanno bene in un libro scadente, e allora mi dico che l’unica cosa che desidero nella vita è non essere come Vittorio. Poi mi rendo conto che magari sono come Vittorio. È troppo tardi, penso, troppo. E allora provo una paura insostenibile.
È a questo punto del sogno che di solito mi dico che in fondo di Vittorio ricordo solo questa paura che mi mette addosso. Non è paura. È orripilazione. È come quando ti fai la barba, e mentre ti fai la barba i versi di una poesia ti tornano in mente e ti si orripilano i peli della barba, e allora capisci che quella è davvero poesia. Se ti chiedono a cosa serve la poesia, digli a farsi bene la barba. In fondo, mi dico, tutto quello che ricordo di Vittorio somiglia piuttosto a questo, a qualcosa che dà l’orripilazione. È come qualcosa che ha a che fare con la poesia. È un sogno. Solo un sogno. Un sogno, dico a Vittorio quando siamo seduti sullo scalino di quel negozio dietro Campo dei Fiori, un sogno in cui siamo io, lui e Garibaldi, e Vittorio prende in giro Garibaldi per come porta i capelli. Ancora con la contestazione giovanile alla tua età, gli dice Vittorio. Oppure un sogno, gli dico anche, in cui piove, piove in continuazione e noi camminiamo in fretta, pensiamo di essere inseguiti dalla polizia, e invece è uno scrittore di romanzi morto, che alla fine si rivela essere non un semplice narratore di storie, ma la Storia oppure la Fine della Storia. Certe volte a Vittorio racconto anche quest’altro sogno, un sogno in cui lui è morto, e io, che fino a quel momento non lo avevo mai neppure sentito nominare, vengo a sapere dall’amico di un amico di un amico che è morto questo Victor Cavallo, il nome mi fa ridere, poi mi dicono chi era e chi non era, e io faccio: sarebbe bello sapere se ha anche scritto qualcosa. Potremmo pubblicarlo. E poi questo amico di un amico di un amico mi fa: chissà, forse Victor scriveva qualcosa. E poi abbiamo trovato i suoi racconti, li abbiamo raccolti, e infine anche pubblicati. Poi non è successo molto altro.
E così siamo arrivati al momento del mio sogno ricorrente su Vittorio nel quale capisco che questo sogno non ha a che fare con i miei ricordi su di lui, che io non ho ricordi su di lui, che io Vittorio non l’ho mai conosciuto. Ho solo trovato i suoi racconti dopo che era morto. Tanti anni fa. Ero ancora un ragazzo. E quindi siamo arrivati al momento del mio sogno ricorrente in cui Vittorio mi guarda e ride. Ora hai capito il meglio, mi fa poi Vittorio. Questo me lo dice mentre saliamo un sentiero di montagna. Forse ci siamo arrivati prendendo la strada dalla quale di solito vediamo sbucare il cameriere. La salita non è difficile. Cerchiamo dei funghi. Crescono nella merda di vacca, mi fa Vittorio. È lì che trovi il meglio, mi fa. E poi mi dice: vedi, tutto questo era per dirti che alla fin fine si tratta sempre di due persone. Una è più vecchia, come me, e l’altra è più giovane, come te. Quella giovane accompagna quella vecchia in montagna, a cercare funghi nella merda di vacca. Poi arrivano in cima, e qui, la cosa ti può sembrare triste quanto ti pare, ti puoi fare venire l’orripilazione, come dici tu, ma è così: il vecchio non torna indietro. Coso bello, è così. Sarà una storia trita e retorica, ma è così. Il vecchio non torna indietro. Ci torna il giovane. E poi il giovane fa il racconto di quello che è successo, e tiene viva la memoria del vecchio. Tutto qua. E lo fa fino a quando non diventa vecchio pure lui. Fino a quando un giovane non lo accompagna a sua volta in montagna a cercare funghi nella merda di vacca. Fidati, è l’unica. Se non fosse così, questo mondo non avrebbe futuro. Dai, ora va, devi tornare indietro.
Pier Paolo Di Mino
L'immagine è un ritratto di Victor Cavallo, realizzato da Veronica Leffe in occasione dell'evento organizzato da TerraNullius Victor, il combattente supremo (per saperne di più guarda anche sul portfolio).
*Il racconto è inserito come postfazione in Diario tunisino o Le Combattant Supreme di Victor Cavallo, pubblicato da Jolly Roger in edizione limitata e numerata di sessanta copie.