IL FILOSOFO È INSIEME POETA E PITTORE
Questa nota, che principia oggi la sua serie, deve il suo titolo, e non solo quello, all’opera di Giovanni Pozzi nel suo complesso e, in particolare, al saggio intitolato Sull’orlo del visibile parlare.
La millenaria riflessione sull’equazione fra immagine e parola, sulla loro identità nel pensiero, che ha coinvolto la passione filosofale dei padri della Chiesa; dei filosofi dell’età di mezzo (su tutti Dante, a cui si deve l’espressione “visibile parlare”); dei grandi pensatori che hanno scritto e dipinto nel Rinascimento italiano; questo ideale condensato nella formula dell’”ut pictura poesis” precipita (alla fine del sogno neoplatonico di una civiltà umana e all’apparire dei primi sintomi della società moderna), nella pratica sapienziale di Giordano Bruno, che ci ricorda che il filosofo è insieme poeta e pittore. Ne Il libro azzurro, che de Lo splendore è una lente ingrandente, una porzione in cui ridonda il senso e la forma dell’intero racconto, l’insolubile legame fra immagine e parola che si colloca nel pensiero diventa non solo il fatto formale principale ma anche il motore del gioco letterario. Le riflessioni che seguono partono proprio dalla constatazione che è impossibile reputare un racconto come qualcosa afferente più alle parole che alle immagini. Un racconto. Qualcosa di cui teniamo conto. La parola raccontare è un rafforzativo di contare, computare. La parola è un parallelo piuttosto preciso della parola greca logos. Entrambe significano enumerare le cose del mondo e darne conto agli altri: farne il racconto. Un racconto serve a dare conto delle cose del mondo e della vita. Quando ci si chiede perché noi uomini, fin dall’alba dei tempi, facciamo e ascoltiamo racconti, la risposta più semplice è che lo facciamo o per divertimento o per scambiarci informazioni. In realtà questa differenza non è troppo valida, perché nessuno dà o riceve informazioni se non trova divertente, piacevole, attraente questa azione, e perché, anche quando si sente una storia per puro divertimento, da questo divertimento si cerca qualcosa di utile nella propria vita. Da un racconto si cerca di ricavare la cognizione di qualcosa. Anzi, di farne esperienza viva. Un’esperienza molto più viva di quella che possiamo ricavare da un enunciato, da una definizione, da una teoria. Troviamo qui il motivo per il quale i bambini piccoli vogliono sempre sentirsi raccontare la stessa storia nello stesso modo. Non è un patologico bisogno di sicurezze. I bambini, in realtà, vogliono sentire sempre la stessa storia per cercare di arrivare a comprenderne il mistero. Lo stesso fanno i popoli primitivi, o, in tempi storici, tutte le comunità che si sono costituite a civiltà. Per esempio i greci. Gli abitanti dei villaggi e delle città greche sentivano ripetutamente storie che già conoscevano a memoria fin dall’infanzia in ogni occasione religiosa possibile. Le storie, alcune conservate e altre perdute, raccolte sotto il nome di Omero, per esempio. Come dice il maestro dell’Hagakure, non bisogna mai stancarsi di sentire una storia, perché non sai quando per te diventerà un’esperienza. Ovvero, tornando all’etimo e quindi al significato della parola racconto, non sai quando un racconto potrà svolgere la sua funzione, che è quella di darci conto della vita e del mondo, o, meglio, della loro immagine, dal momento che per noi la vita e il mondo sono questo: un’immagine che lavoriamo nella nostra mente.
Testo di Pier Paolo Di Mino.
Ricerca iconografica a cura di Veronica Leffe.