FAMIGLIA
Torniamo ora al nostro ragionamento sulle etimologie delle parole e l’origine delle cose. Finora i nostri ragionamenti etimologici sull’uomo ci hanno condotto a una definizione generica che trova il suo migliore posizionamento nell’ambito di quel gioco vanitoso dei contrari che è fondato sempre sull’identità:
abbiamo dunque relazionato l’uomo al divino, e il divino all’umano, rimanendo quindi collocati su un piano di realtà assoluta. Vogliamo ora, però, spostarci dal piano della realtà ed entrare in quella astrazione artefatta che costituisce il campo della nostra socialità.
Questo ci impone una piccola premessa cautelativa.
Un esame della parola che voglia impiegare in modo esatto l’immaginazione, ovviamente, non può trascendere mai dalla realtà della parola. Dico questo per preavvertire i più sensibili spiriti platonici dalla sicura delusione che questa nota può procurare. Infatti, è evidente che non è mai possibile trovare nella descrizione e definizione insista nelle parole volte a dire la socialità, un qualcosa che, in modo felice e fecondo, rimandi all’osservazione ineccepibile di Platone secondo la quale uno Stato, fin dal suo nucleo minore, può essere fondato positivamente solo quando poggi su quella forza libera e caotica che potremmo chiamare, una volta mondata questa parola da qualsiasi degradazione sentimentale e morale, amore, e che i greci chiamavano con il nome di Dioniso così come i romani con quello di Libero. Prendiamo la parola famiglia, e, prima di osservarla da vicino, constatiamo come la famiglia, il nucleo fondamentale dello Stato, fin dal mondo romano non costituisca un legame fra persone unite da un qualche affetto: un qualche affetto, nella famiglia romana, poteva essere un effetto collaterale della cruda necessità di unirsi per produrre merci. Di fatto una famiglia era ciò che riuniva casa, beni, terre e tutti coloro che, liberi o schiavi che fossero, lavoravano quelle terre al fine di produrre merci.
Con la socialità entriamo appunto nel campo delle merci, del commercio e di qualsiasi altra costruzione artefatta che esuli il nesso fra necessità e piacere, che si astragga dall’ambito della vita per consumarsi dentro quello dell’esistenza. Con la socialità vien meno l’impiego dell’immaginazione, dunque, e si fa spazio quello dell’astrazione, della fantasticheria, della chimera, del dogma, e via dicendo. L’uomo, per esempio, in questo passaggio dall’immaginazione alla fantasticheria, dalla vita alla socialità, diventa espressione di una distanza incolmabile con il divino, prima, e poi espressione di un’opposizione insanabile, per la quale o c’è l’uomo o c’è il dio; parimenti l’uomo entra per definizione in contrasto con qualsiasi altro ente creaturale, con gli altri animali, o con questa cosa fumosa che chiamiamo natura; e, infine, in questa sorta di gioco al massacro entra in contrasto perfino con se stesso, opponendosi alla donna. Nel rapporto fra uomo e donna, va subito notato, l’uomo perde la sua definizione propria, perché diventa arbitrariamente l’opposto di una parola che significa padrona. Padrona di casa. L’uomo perde il suo significato, e diventa un padrone di casa. È un mondo di duri lavori domestici, di campi da arare, di gente china sulla terra mentre i guardiani giocano ubriachi ai dadi, berciando sconcezze alle donne, che stanno bocconi a spigolare, la prole in grembo che pigola. L’uomo, qui, è alla fin fine il maschio, parola troppo antica, mediterranea, per poterne ricavare con esattezza l’origine, ma che deve di sicuro rappresentare l’opposto rispetto alla femmina nella fabbrica copulativa. Se la femmina è colei, alla lettera, che allatta, il maschio insemina: il maschio insemina e, con efficace processo industriale, all’altro capo abbiamo una latteria. I problemi speculativi che ci dà la parola maschio saranno più chiari se solo si riflette su come da questa parola si arriva anche a marito, parola che, all’origine, poteva andare bene a un maschio come a una femmina, indicando solo l’animale pronto a copulare. Il marito diventa maschio nel significato odierno, solo quando è chiaro che al suo opposto c’è una moglie, parola fumosissima ma che, probabilmente, serve a designare una persona che molcisce qualcosa: forse, impasta pane o prepara formaggio. Qualcuno che lavora. Un lavoratore che, al suo opposto, ha uno sfruttatore, sfruttatore che possiamo immaginare in pompa magna secondo la fraseologia di certa letteratura economicista, ma che, alla fin fine, rimane chiuso nella figura del prosseneta. Impossibile non notare il baratro di umiliante e frustante inutilità in cui è entrato l’uomo grazie a questa vaporosa serie di distinzioni di generi e ruoli, distinzioni prima vaporose e inconsistenti, e, quindi, come è inevitabile, umilianti e frustanti. Questa confusione, questa melma, questa nebbia, questo buio mentale nasce, è chiaro, dal bisogno di luce, di distinzioni, di ruoli. Le nostre sbalorditive società nascono da questa fantasticheria della divisione in ruoli, divisione che comincia con il prendere due enti ridotti all’incomprensibilità e all’irrealtà, uomo e donna, maschio e femmina, marito e moglie, per farne, però, qualcosa che, nella sua definizione, è spaventosamente chiaro. Ogni società ha come nucleo fondante la famiglia, fatta da uomo e donna, o maschio e femmina, o marito e moglie. La famiglia, ovvero, all’etimo: l’insieme dei famuli, ovverosia dei servi o schiavi. Servi o schiavi lì, sui campi ad arare, gente china sulla terra mentre i guardiani giocano ubriachi ai dadi, berciando sconcezze alle donne, che stanno bocconi a spigolare, la prole in grembo che pigola.
Testo di Pier Paolo Di Mino.
L'immagine, "Famiglia", è un'illustrazione di Veronica Leffe.