VULCANO E L'IMMAGINAZIONE DEL FUOCO
La modernità ha congegnato diverse spiegazioni circa la realtà che, malgrado la loro sommaria sbrigatività, si intestardisce a definire scientifiche senza peritarsi di ricollegare la parola scienza al suo significato. Prendiamo, per esempio, la fantasia del fuoco.
Si può davvero sostenere che gli uomini primitivi lo abbiano prodotto attraverso lo sfregamento di due pezzi di legno secco traendo ispirazione per questo atto dall’osservazione di un incendio che divampa improvviso e misterioso, o dalla terrificante visione di un vulcano che erutta, o ha più senso con Bachelard immaginare che il “il tentativo oggettivo di produrre il fuoco per attrito sia stato suggerito da esperienze del tutto intime”, e che, dunque “l’amore sia la prima ipotesi scientifica per la riproduzione oggettiva del fuoco”? Quel fuoco che avvampava dal volto di Mosè, quel fuoco riprodotto dal velo rosso delle spose romane, il fuoco pentecostale, il fuoco che si manifestava nel rossore dei volti e che, un tempo, anziché segno di vergogna, lo era di impeto. Tempi impetuosi e non vergognosi. La testa, ritenuto luogo sacro dell’uomo come dell’animale, era la sede dell’intelligenza e dell’amore, e se la sua sostanza era spermatica, la sua essenza era ignea. Era questo fuoco linfatico, spermatico, logico che la mente di ogni cosa conteneva. Forse, dunque, il vero e intimo segreto d’amore che legava Venere e Vulcano era questo: era il fuoco con il quale Vulcano lavorava senza sosta, lavorando all’amore e all’intelligenza.
L’immagine è “La fucina di Vulcano” di Luca Giordano, olio realizzato nel 1660 e conservato all’Hermitage di San Pietroburgo.
Testo di Pier Paolo Di Mino.
Ricerca iconografica a cura di Veronica Leffe.