DUE DIVERSI MODI DI GUARDARE LE COSE
La differenza fra Achille e Odisseo era sentita nel mondo classico come una differenza dalle vaste conseguenze politiche: la loro differenza, ancora valida oggi, segna il discrimine fra una concezione eroica, quella di Achille, e una umana e civile di questa nostra vita in comune che passiamo interinalmente qui su questo pianeta.
Non è necessario spiegare troppo che ogni nostra azione deriva da un nostro atteggiamento, conscio o inconscio che sia, e che questo, a sua volta, deriva da una fantasia, conosciuta o sconosciuta che sia, attraverso la quale abbiamo guardato alle cose. C’è, dunque, qualcosa che viene guardato in un dato modo da Odisseo e in un modo del tutto diverso da Achille. C’è, diciamo allora, un modo che può rendere chiunque un campione, come Odisseo, della ragione mercuriale, o un sapiente, oppure un saggio, oppure qualcuno che, senza perdere nulla della propria gioventù, può diventare vecchio: un uomo pieno di spirito come di anima, insomma. E c’è un modo che ci tiene stretti nei vincoli di un’irredimibile, impietosa ed eterna giovinezza, nelle strettoie di un’inflazione spirituale che ci rende capricciosi in maniera esiziale o, con moderno termine psichiatrico, che ci rende psicopatici: che ci rende, dunque, simili ad Achille. Questi due diversi modi di guardare alle cose comprendono ciò che guardano e rispondono uno al verbo considerare e l’altro al verbo desiderare. Considerare, ovvero, all’etimo, osservare le stelle. Desiderare, ovvero, all’etimo, non guardare le stelle: guardare un cielo vuoto sul quale riflettere solo le nostre fantasticherie. Odisseo considera, osserva la realtà nel suo aspetto più immutabile, quello astronomico. Odisseo è nelle grazie di quegli dèi che, ci ricorda Aristotele, sono in realtà pianeti. Perfino ogni sua divagazione non può che essergli utile a riallinearsi con la realtà, con quella realtà che perfino sul piano orizzontale e interinale delle nostre esistenze è una sola: nasciamo tutti uguali; tutti viviamo e, poi, tutti allo stesso modo, moriamo: un rituale di meravigliosa perfezione astrale. Achille, invece, desidera: vagabonda in una notte buia inseguendo la propria ombra, i propri impauriti capricci, proiettando quest’ombra ovunque. Omero, dunque, raccontandoci di Odisseo e di Achille; parlandoci della vittoria del primo e mettendoci in guardia dal secondo, non fa altro che introdurci alla necessità di diventare tutti astronomi se si vuole trovare, meglio che una chimerica salvezza, una dirittura salda di vita. Una dirittura salda di vita, come quella di cui parla Socrate nel Fedone raccontando la sua favole sulla via lattea. Filosofia, poesia e astronomia. Forse abbiamo perso la facoltà di pensare, abbiamo perso la facoltà di poetare, quando abbiamo cominciato a perdere il piacere di guardare le stelle e contarle e contemplare il musicale ordinato gioco come lo troviamo ancora raccontato nella grande letteratura, perché la grande letteratura può essere intesa come una magistrale lezione di astronomia, come ci hanno rivelato ne “Il mulino di Amleto” Giorgio de Santillana e Hertha von Dechend. Tutta la poesia, ci suggerisce questo libro lo è, perché la poesia è quel fare la realtà approssimandosi a essa sempre di più (è questo un modo per tradurre la parola poesia) che si basa sull’ossessione della misurazione, sul metro e la cadenza, sulle crescite e le decrescite, sui numeri di ogni sorta come li troviamo nei tempi lunghissimi che prolungano ognuna delle nostre vite nelle vite che verranno: come li troviamo nelle stelle. Nelle grandi narrazioni gli inesorabili fatti astronomici coincidono con quelli eterni dell’anima ed è per questo, quindi, che ci rivolgiamo alle grandi narrazioni per vivere davvero.
Testo di Pier Paolo Di Mino.
Ricerca iconografica a cura di Veronica Leffe.