GILGAMESH E IL POPOLO VESSATO
I sudditi di Gilgamesh si sentivano vessati dal loro sovrano e si lamentavano di lui con gli dei in continuazione; questo a causa dell’incontenibile bisogno di gloria e guerra, vanità pedisseque, di cui soffriva opacamente il loro re.
In realtà, il primo libro della nostra tradizione che ci avverte contro i pericoli della capricciosità infantile; contro l’orrore della psicopatia eroica ovvero egotica; contro la noia nientificante di questo tormentoso continuo rimuginio della mente: lo voglio, lo voglio, lo voglio; contro questo perenne: è duro ma qualcuno lo deve fare; contro questo inesausto: non permettere che nessuno ti dica che questo non lo puoi fare; contro questa scena pietosa e criminale in cui la mamma crederà sempre in quello che fai, qualsiasi cosa fai; contro questo incoraggiamento continuato come una frode continuata al crimine seriale, alla inarrestabile crescita cancerogena, all’ottenimento finale con musica finale di angeli con trombe ai quanti canti del cielo svuotato e allibito; in realtà, il primo libro della nostra tradizione che ci mette in guardia dalla morte in vita non è l’Iliade ma il Gilgamesh. Il Gilgamesh è, in effetti, il primo poema epico della storia dell’umanità. Si tratta di un’epopea babilonese, infatti, il cui nucleo fondamentale risale ad antichi racconti sumerici. Di cosa parla il Gilgamesh? Di un giovane re, pallido e inquieto, che disturba il popolo con le sue continue smanie di vittoria. Questo giovane re pensa solo alla guerra, al progresso e ai tagli al personale. Non ha tempo per altro, e rifiuta l’amore di una dea. Il finale non può che essere tragico. Queste cose le conosciamo tutti da vicino. Una cosa, però, il Gilgamesh ci dice in più rispetto a tante altre storie, anche rispetto a quella di Achille, figlio di Teti. La colpa non è davvero della mamma. La mamma, in fondo, è solo un’invenzione e una scusa del figlio che non vuole crescere. Mio figlio, dice infatti la mamma di Gilgamesh, ha un’infezione solare. Ha ripreso da suo padre, il sole. È un monomaniaco, come suo padre, che è unico e solo, distante dal mondo, e crede soltanto in sé stesso. E da qui tutto il suo male.
L’immagine rappresenta la lotta tra Gilgamesh e Enkidu, ed è un’illustrazione dell’artista siriano Waab Tarabieh.
Testo di Pier Paolo Di Mino.
Ricerca iconografica a cura di Veronica Leffe.