JAMES JOYCE
Polvere, sembrava polvere, molta polvere nell’atmosfera, così, all’improvviso. Ma forse si sbagliava.
Non devo distrarmi, pensò Joyce, e poi si chiese a cosa stesse pensando, ma niente, non gli riusciva di capirlo. I pensieri procedevano veloci lungo quindici, forse venti piste, o tracce, o strade diverse, che si intersecavano e ostacolavano l’un l’altra. Forse, una voleva emergere.
Una vuole emergere, si disse Joyce, o, meglio, c’è una traccia, una strada, una pista, un pensiero che mi interessa pensare più degli altri, e la difficoltà sta tutta nell’isolarlo e assorbirlo nella coscienza. Una folata di vento gli colpì il viso, e gli fece chiudere gli occhi. Giambattista Vico, si disse. Sto pensando a Vico, a quella scena de La scienza nova: Vico cade dalle scale, e afferma che così ebbe l’intuizione della sua filosofia. L’intelletto ridotto a incidente, pensò Joyce. Geniale. Il mistico come infortunato. Anzi, come malato. Userò questa scena. In un modo o nell’altro. In fondo, poi, l’intelletto, isolato e avulso dal complesso immaginativo, davvero è un incidente, una malattia, una disfunzione che dispone l’uomo a conoscere la realtà in un modo morboso, così come la ragione, strappata a morsi dal complesso immaginativo di cui sopra, staccata e messa lì come una cosa secca, è soltanto uno stato di apparente salute, salute da bestie, che conduce alla beata ignoranza paolina del mondo. È così. Solo quando intelletto e ragione sono consonanti e ben intruppati nell’immaginativa l’uomo conosce la realtà e ne ricava uno stato di salute armoniosa; solo quando intelletto e ragione si scambiano costantemente, con ordine, gli umori nel flusso e riflusso della vita, allora, nel sangue delle cose scorre senza intoppi la musica celeste e terrestre, assoluta e concreta, sofisticata e popolare dell’anima del mondo, ben concordata e perfettamente accordata, concertata, euritmica, proporzionata, simmetrica, coerente, in una parola conforme a vera (o nuova) scienza, e tutto, allora, assume e sussume senso e significato: questo è il dettato di tutto il neoplatonismo fino a Dante e da Dante fino a Vico.
Joyce sentì freddo, anche se il vento ora si era abbassato, ed era uscito il sole. Si accorse di pensare a Dante Alighieri, o, meglio, che stava cercando di pensare a Dante, ma la strada era piena di persone. Pensò che per lui era davvero troppo, che si doveva sfilare dalla folla perché la folla opprime, toglie aria, e, senza aria, i pensieri si afflosciano, anneriscono, avvizziscono, muoiono. Si infilò in un vicolo. Raggiuse una piazza. Si sedette su una panchina. Guardò un piccione che becchettava il pavé, pareva pavé, come in Francia, come a Parigi, ma, rifletté Joyce, non poteva essere un pavé. Pensò di nuovo a Dante, pensò che non c’era niente da fare, che lui e Dante avevano due temperamenti diversi, senza contare l’epoca diversa, e i fatti circostanziali, e via dicendo; e poi Joyce pensò a Dante esule, costretto a essere tale dalle avversità della vita, a Dante che girava l’Italia accolto nelle corti, e pensò a Dante che cantava la bellezza dell’intelletto intuitivo rivestendolo delle fattezze spirituali di una donna in carne e ossa.
Io invece, si disse Joyce, sono un esule costretto a essere tale per professione di fede letteraria, oppure per fedeltà a Dante, sarebbe a dire per capriccio, sbattuto qui e lì, ramingo, più che altro questuante: l’Italia, la Francia, l’Inghilterra, ma soprattutto Dublino; quante case avrò cambiato?, povertà, miseria, umido e muffa, freddo, alcool, alcool etilico, alcool dalla parola araba che indica lo spirito o dalla parola araba che indica la polvere di stibnite ottenuta per sublimazione dall’antimonio, alcool in quantità straordinarie, e quindi sbronze, ciucche, grandi ubriacature, vomito al mattino, buchi neri nella memoria, e tant’altro, tant’altro, comunque uno schifo, a pensarci bene non capisco come una persona quale sono, un letterato, possa accettare questa cosa, e poi Nora: Nora, sì, andiamo al punto di cui interessa davvero ragionare, Nora donna in carne e ossa dalle fattezze carnali: il viso di Nora, gli occhi di Nora, i piedi di Nora, una cosa che dice e una che non dice: e scatta l’intelletto intuitivo: ecco la chiave: ecco la verità manifesta che nessuno vuole dire: il romanzo della rosa, la rosa cercata in sogno da Poliphilo che l’epoca moderna e razionalista, riformata e controriformata, ha reciso affinché non rinascesse mai più. Mai più. Povera rosa. Povera rosa delle donne. Povere donne: e poveri tutti. Ma io a Nora glielo dico sempre: impazzisco pensando ai tuoi strapazzi intimi, e sia, quindi: che io impazzisca pure; glielo dico sempre: confessa, confessa che non ti importa nulla di nulla che mi hai tradito, dimmi che mi hai tradito perché sennò non riesco a scrivere. È l’eminente sostanza erotica dell’intelletto che rende il mistico ciò che è: un amante devoto e possente.
Nora, si ripeté Joyce, ma distrattamente, perché, ora, la sua attenzione era assorbita di nuovo dalla polvere, o erano chicchi di neve minuscoli, quasi invisibili, che galleggiavano o volteggiavano lentamente nell’aria, o, forse, erano grani di pulviscolo cosmico, o, gli venne in mente infine, quelle erano le unità minime di pensiero che sottendono la struttura del mondo e che sono lì per essere intercettate attraverso il respiro dagli uomini, o da qualche altro animale, per potere essere finalmente pensate.
Comunque, si disse poi, Dante con il suo esilio non ha espresso altro che un fatto minore, un dramma umano qualsiasi: ossia Dante non ha rappresentato, con il suo esilio, la condizione umana in sé, che è appunto l’esilio. Quindi, non Dante ma Odisseo. Ci arrivo. Il protagonista del mio romanzo è lui, Odisseo, io sono Odisseo e così lo sarà anche il mio eroe di carta e inchiostro, discendente di Ermete: questa è la cosa fondamentale! Infatti, pensiamoci bene, cosa può fare un discendente di Ermete, il mio personaggio, o io, o l’uomo in sé se non peregrinare disperato?, per una metà malato di mente, e quindi corrusche visioni, schizofrenia, eccessi di ogni tipo, birra o erba moli, vomito al mattino, e, per l’altra metà, delinquente e truffaldino da capo a piedi, pieno di astuzie (in qualche modo si deve campare, sbarcare il lunario, svoltare la giornata: e freghi e impicci, scappi nella notte da casa per non pagare l’affitto, queste cose qui, insomma). Ecco, ecco, questo è il tragitto, il percorso dell’uomo: attraversa il mondo, perdendosi: per metà è un pazzo e per l’altra metà un ladro schifoso senza morale, ma, alla fine, attraversato il divenire, raggiunge l’essere, ossia Nora, o Penelope, e le sue facoltà si riuniscono: la malattia mentale e la schifosità morale diventano intelletto e ragione ben intruppate nell’immaginativa, e l’uomo ora è completo, è felice: è un uomo. Grazie a Nora, che, all’uomo, lo ha evocato a sé per mezzo del desiderio, della gelosia che rende matto il maschio. Omero racconta che Penelope non si è lasciata tentare dalle ambasce della solitudine; in altre storie, invece, Penelope ci ha dato fondo a quelle ambasce: fino a soddisfare tutte le tentazioni. Quale sarà la verità?
Vai a sapere tu la verità con Nora?, si disse Joyce, e si sentì allegro, stralunato, e poi sentì voglia di bere, e di stare con Nora, ubriaco. Comunque, si disse poi, questi sono fatti semplici, sempre gli stessi: l’uomo attraversa il divenire per raggiungere l’essere. Però, però, cos’è che accade veramente mentre accade questa cosa, questo affare faticoso di raggiungere l’essere? Accadono le parole, ecco cosa accade: le parole accadono, cadano, si sfasciano, si sdoppiano, triplicano, ricompongono, sono fatte così, di lettere, di lettere traducibili in numeri, di numeri udibili musicalmente, di musiche visibili attraverso i colori, parole, parole e parole. Cosa significa una parola? Una parola significa tutto ciò che può significare e che non può significare, orribile segreto della realtà, che uno ci può diventare matto o un grande delinquente, ma se sai giocare bene le tue carte allora no, allora tutto è pieno di meraviglia e splendore.
Joyce si incantò su quest’ultimo pensiero: la meraviglia e lo splendore; e, infatti, ora i grani di pulviscolo, le unità minime di pensiero che sottendono la struttura del mondo, le parole nell’aria, vibravano e brillavano: e, allora, Joyce, si alzò in piedi di scatto, si sentiva davvero allegro, vispo, e rise, e poi si fece coraggio e prese fra le dita un’unità minima di pensiero, una parola, e la scagliò, ma con delicatezza, contro un'altra unità minima di pensiero, e tutto il mondo vibrò, brillò di intelligenza. Era davvero bello vedere quella cosa, e, allora Joyce, sempre più allegro, sempre più vispo, si disse: e ora a casa, serve solo uno scrittoio, o una scrivania, una mappa di Dublino con sopra tracciato il tragitto fino all’essere passando per il divenire, penne, inchiostro, quaderni, e, più di tutto, un vocabolario zeppo di parole. Che il gioco abbia inizio.
Testo di Pier Paolo Di Mino.
Illustrazione di Veonica Leffe