FЁODOR MICHAJLOVIČ DOSTOEVSKIJ
Eraclito, descrivendo i rapporti che intercorrono fra la conoscenza e il sapere, mostra di dare importanza tanto alla prima facoltà, nei limiti che danno forma al-
le sue caratteristiche, che alla seconda, ineffabile e illimitata. La conoscenza si ha attraverso l’esperienza, che è necessaria ma non sufficiente; il sapere si ha invece in un gioco immediato e folgorante fra la mente e la realtà, in cui la lenta e faticosa macchina dei sillogismi si rompe per dare spazio a una macchina diversa, capace di connettere tutto con il tutto, e rendere vicine le cose lontane. Il rapporto, giocoso e violento, fra conoscenza e sapere presiede all’operazione letteraria di creazione di pensieri, ossia immagini e parole, da cui successivamente derivano le nostre filosofie, e le religioni, e le scienze, e le ideologie.
Si conosce, si ha esperienza di un oggetto, quando l’oggetto in questione è prima sottoposto a quel tipo di operazione razionale che è la riflessione e, poi, a quell’altro tipo di operazione razionale che è la sua traduzione in un racconto. Va da sé che, per fare esperienza di qualcosa, serve solo apprendere i piani e docili strumenti della logica e della retorica. L’oggetto in sé, però, è materia del sapere, e, a tutt’oggi, nessuno è stato in grado di congegnare piani e docili strumenti che diano accesso al sapere. Fin dall’antichità in questo accesso è stato visto, anzi, qualcosa di pericoloso e morboso, riferibile a eccessi e deficienze indotte o autogene. Questa fantasia è sopravvissuta fino ai nostri giorni: il sapiente, o veggente, o mistico alterato dai veleni ergotici di Eleusi o affetto da male sacro è divenuto, nell’epoca borghese, il poeta deaureolato, il santo bevitore, il cane romantico.
È impossibile ragionare sulla letteratura di Dostoevskij sottraendosi alla fantasia decadente del poeta perso nel mondo moderno, del grande epilettico, del giocatore d’azzardo, ma se si vuole ragionare davvero seriamente sulla sua letteratura, dobbiamo allora vedere attraverso questa superficiale incarnazione mondana e secolare di un modello antimondano, e scoprire il ruolo prototipale, di carattere mistico, che egli assunse come professione di fede: se Dostoevskij è riuscito a raccontare, e con fantasia esatta, cosa sia il male, e come ripararsi da esso, questo è senza dubbio dovuto al fatto che Dostoevskij ha assunto i modi tipici della pratica ascetica messa in atto dalla figura scandalosa dello jurodivyj: lo stolto in Cristo, che rompe con le regole della normalità, con i codici e commi della teodicea banausica della società secolare; il folle che esce fuori dalla scena dove si recita, in tutto il suo orrore, lo spettacolo del commercio normale dei sentimenti e delle ragioni: il santo osceno. Dostoevskij assunti questi modi, li ha quindi elaborati e trasformati in letteratura.
Per penetrare una dialettica distruttiva ed eversiva nei confronti di una società che smaterializza gnosticamente la vita, che sostituisce la realtà con la norma, e le leggi con le regole, e riduce l’intero complesso dell’immaginazione umana alla sola ragione commerciale; per capire una dialettica che riporta l’uomo alla sua capricciosa umanità, quale è quella impiantata nel cuore della letteratura di Dostoevskij, dobbiamo prima di tutto immaginare Dostoevskij come uno jurodivyj, come fosse, ovvero, uno dei suoi personaggi in un luogo qualsiasi dei suoi racconti (della potenzialmente infinita catena dei suoi racconti): e vaga, si perde, si ritrova nel cuore dell’uomo.
Il giorno era sospeso nella confusione con la notte. Dostoevskij aveva perso tutto a carte. Sedeva su una poltrona sdrucita, in un locale che puzzava di orina e incenso. Forse, però, l’odore di incenso lo immaginava solamente. Si sentiva intossicato di tabacco. Si sentiva avvelenato dagli alcolici. Si sentiva disperato. Davanti a lui sedeva un suo coetaneo, un giovane universitario. La sua fisionomia era netta sullo sfondo. Lo sfondo era annebbiato dai fosfeni promananti dai lumi a petrolio. Il giovane universitario invece era chiaro e netto al punto tale che Dostoevskij pensò all’improvviso: tutti sono chiari, e io sono l’unico oscuro. Il giovane universitario parlava del futuro. Pareva certo che sarebbe venuto. Inveiva contro la religione. Parlava di ateismo, di modernità, di felicità, di utilità, di produzione. Citò Bentham. Si tratta solo, disse a un certo punto lo studente, di vedere se, nella dialettica storica, vincerà la borghesia produttrice o il proletariato lavoratore. Citò di nuovo Bentham. Dostoevskij si ricordò di Dante, di quella scena dell’Inferno in cui ci sono i banchieri, e i banchieri si leccano i labbri superiori con la loro grossa lingua. All’inferno, pensò Dostoevskij, si vede cos’è davvero chi pensa ai soldi: è un animale. Regolazione, disse poi lo studente. Il capitalismo raggiungerà un giorno, presto, molto presto, il suo grado massimo di efficienza ed efficacia, sarà perfettamente regolato, e sarà superiore motivo di giustizia, ma prima, prima, ovvio, più di un fiore innocente dovrà essere reciso dal passaggio della storia, la lotta di classe travolgerà tutto, ci saranno morti, ci devono essere, a milioni, moriranno a milioni di milioni, ma, infine, chi vincerà creerà in terra un mondo di giustizia, di perfezione, di purezza, di onestà, in cui l’uomo lavora, e nel lavoro trova la propria ragione di vita superiore. Non esisteranno più malattie, e imperfezioni, e tutti saranno uguali. Come a Sparta, pensò Dostoevskij. A Sparta tutti erano uguali e non c’erano imperfezioni. Gli imperfetti li uccidevano alla nascita. Per questo motivo, si disse Dostoevskij, Sparta non ha mai avuto poeti e musici e scienziati, erano loro gli imperfetti uccisi alla nascita, e Sparta è sparita senza mai essere esistita davvero. E questo perché amavano la purezza, e l’amavano, come dice Platone, perché nel cuore erano avidi di denaro. Il giovane universitario stava parlando ancora del lavoro, con entusiasmo, con fervore. Parlava di terra irredenta, strappata alla confusione della natura, alle paludi e ai deserti e alle foreste primitive, parlava di razionalizzazione della produzione, di fabbriche, del loro funzionamento, che sarebbe migliorato ogni giorno, aumentando la quantità delle merci, e poi parlava di distribuzione e benessere, e questo, tutto questo discorso sul lavoro che sarebbe sempre più aumentato, aumentando la ricchezza, fece venire in mente a Dostoevskij la storia del contadino devoto a Ercole. A Roma, prima dell’èra volgare, raccontavano questa storia. C’era un contadino. Era molto devoto a Ercole, e, come tutti i devoti a Ercole, era infaticabile. Aveva dieci campi, e li coltivava giorno e notte, con zelo calvinista, con fanatica fede nel guadagno. Un giorno, però, si sentì disperato, perché era stanco, stanchissimo. Non ce la faceva più. Così pregò con particolare fervore Ercole che lo facesse diventare ricco in maniera tale da potere smettere di faticare tanto. Ercole amava molto questo suo devoto, perché era davvero infaticabile, proprio un piccolo ossesso del lavoro, ma Ercole non era il tipo capace di fare miracoli. Ercole nemmeno ci credeva nei miracoli. Lui credeva solo nel duro lavoro. Ma amava il suo devoto, e così mise in moto la lenta macchina del suo apparato mentale, e alla fine capì che poteva chiedere aiuto a Mercurio. Mercurio lì per lì gli disse di no. Non ho nessuna intenzione di aiutare questo piccolo calvinista che mi ruzzola tutto il giorno fra i campi come uno stercorario, disse a Ercole. Poi, però, Mercurio si chiese: cos’è il genio? E si rispose: trovare l’occasione giusta per divertirsi. E così accondiscese a fare il miracolo a favore del devoto di Ercole, che, il giorno dopo, mentre zappava la terra, trovò un tesoro, una cassa piena zeppa di oro zecchino. E cosa ci fece il contadino con tutto quell’oro? Lo prese e ci comprò altri dieci campi, e il giorno dopo ancora, finito di zappare per bene, con cura, tutt’e venti i campi, gli prese un colpo al cuore per la fatica, e morì. A Roma, si disse Dostoevskij, Ercole era sentito come il dio degli stupidi. Dostoevskij non riuscì a trattenersi dal ridere. Ma che ti riderai mai?, gli fece allora il giovane studente. Sei un fallito, come tutti i letterati. Bel lavoro ti ha dato la disoccupazione. Sei un fallito. Sai che ti dico?, voi poeti siete peggio dei preti. Peggio dei preti, ripeté, e, a quel punto, Dostoevskij si accorse che sorgeva il sole, da una piccola finestra del locale, ora, entrava la luce del giorno, che sfarinava l’aria, ed era bella, perché il mondo, pensò Dostoevskij, continua a essere bello malgrado questa gente qui. Almeno saluta, gli stava gridando il giovane studente. Ma saluta, almeno. Dostoevskij si accorse di essere in piedi, davanti alla porta del locale. La notte precedente aveva perso tutto a carte, ma adesso aveva una storia in mente, e la doveva assolutamente scrivere. Il giovane studente gli urlava ancora contro. Dostoevskij uscì dal locale. Il giorno era davvero bello. Era bello. E la bellezza, pensò Dostoevskij, ci salverà.
Dostoevskij, in tutto il corso del suo operato letterario, ha cercato questa bellezza salvifica perché ha cercato il sapere. Tutta la sua letteratura è la traduzione in esperienza, in forma di conoscenza comunicabile e condivisibile, di una riflessione viva e attiva esercitata sul dogma ortodosso per il quale la bellezza e l’amore coincidono tra di loro, e coincidono con il sapere. L’identità, di origine platonica, fra il sapere, la bellezza carnale e spirituale (tradizionalmente personificata nella figura femminile), e l’amore (inteso come comunione mentale) trova in questa religiosità una particolare intensità e dimensione: una dimensione onniavvolgente intrinseca alla realtà del mondo, comprensibile e godibile soltanto dal pazzo in Cristo, o da un uomo come Dostoevskij, o da uno dei suoi personaggi impossibili da raffigurare perché assolutamente buoni; perché impossibili da redimere al vano scialo dei giorni, ai commerci insensati e lerci, allo spreco e all’inconsistenza e all’insignificanza, all’orrore sbiancato che si patisce nelle nostre società normali.
Testo di Pier Paolo Di Mino.
Illustrazione di Veronica Leffe.