ROBERT MUSIL
Perfino nelle fotografie in cui cerca di ostentare la più respingente delle albagie e di fissare uno schermo fra sé e gli altri, segno di un distacco e di una imper-
manenza assoluta, Musil non riesce a nascondere la dolcezza di uno sguardo melanconico; lo sguardo di chi, salvo da qualsiasi sentimentalismo, partecipa, con pienezza di sentimenti, alle sorti umane. È lo stesso tipo di partecipazione, aliena e incomprensibile ai più, che Musil vive per i personaggi dei suoi romanzi. Robert Musil mancava del tutto di quella disposizione a congetturare l’improbabile sul proprio conto; era privo di quella presunzione dietro la quale i più si barricano per mettersi al riparo da depressioni e ansie e angosce (o altre forme di coscienza della realtà). A Musil non piaceva affatto presumere. Questo lo portò ad affermare: “la filosofia mi irrita”. Quello che lo irritava nella filosofia occidentale, così come si configura dopo Platone, era il modo in cui questa persevera nella presunzione di potere dire qualcosa sulla vita, sull’uomo, sul mondo, continuando a operare univocamente secondo una modalità razionale (mettendo solitamente a cattivo frutto la ragione) oppure abbandonandosi ai bagliori dell’intelletto (riducendo l’intelletto a macchina spassosa per produrre momenti di indimenticabile demenza mistica). I danni prodotti da una simile presunzione; i danni prodotti da questa vanità insensata sono ormai, agli effetti pratici, davanti agli occhi di tutti.
Un giorno, compiuti ormai sessantadue anni di età, Musil si sentì stanco. Guardò i fogli del suo manoscritto, e sentì qualcosa. Ribrezzo, forse, o odio, o paura. Dovrei riflettere, si disse, su quello che ho cercato di fare davvero nella mia vita. Perché ho sprecato il mio tempo impilando queste parole l’una appresso all’altra, l’una contro l’altra, l’una così vicina e così lontana dall’altra? Le notti insonni, le emicranie insopportabili, la carne che si fa debole, si secca, e si svuota. Trema. Tutte queste sigarette. Pensieri. Fabbricare pensieri. Leggere, studiare, leggere, leggere e rileggere. Scrivere. In realtà, si disse, si tratta di capire come e perché è successo tutto questo. A me, e non a un altro. All’inizio mi deve essere sembrata una cosa bella. In fondo comincia sempre tutto così. Al principio il mondo si pone davanti a noi come una presenza estetica, e ci chiama. Richiamo: questo è il significato della parola greca per indicare la bellezza. Ho visto il mondo e mi è sembrato bello, ma, fin dall’inizio, fin da ragazzo, ho visto un danno, quello procurato dall’uomo al mondo, e questo per me è stato un richiamo. Ma, mi domando ora, è sensato o addirittura è legittimo cercare una soluzione a questo danno, oppure questo disperato amore per l’uomo è solo una vana fantasticheria dettata dalla tracotanza? Forse, addirittura, è solo una fissazione nevrotica, un fantasmata, un oggetto astratto creato dal mio esaurimento nervoso. È inevitabile, per chi ha una formazione matematica, pensare che un danno è qualcosa a cui non si può non pensare, e che va concepito come problema da risolvere con passione. Porsi un problema, dice Wittgenstein, è sempre gioioso, perché un problema sta lì davanti a noi per essere risolto. Tutta la realtà è un problema da risolvere, e cercare una soluzione è un atto creativo, violento e giocoso, che si impone sulla caoticità e casualità essenziale di quanto esiste. Tutto è un caso. Anche questo dice Wittgenstein: tutto è un caso, a partire dal nostro io. L’io è un vuoto nel quale si agitano infinite possibilità, un caso sul quale costruire una vita piena di senso e significato. Invece l’uomo medio, l’uomo della massa, l’uomo orfico sente l’io come un peccato del quale farsi carico imponendosi una punizione. Farsi carico di un peccato, di una colpa, e poi punirsi, è l’unico modo di fingere e inflazionare un io che, altrimenti, non esisterebbe. Questa finzione, questa inflazione ha creato la condizione umana nella quale viviamo, in cui l’io di ogni individuo è determinato dalla società, in funzione della società, attraverso ritrovati quali l’istruzione, i media, le religioni, la psicanalisi, la pubblicità commerciale. È la società che dice al singolo ciò che deve essere. Le società, che sono un costrutto di matrice orfica, impongono all’io degli individui di essere qualcosa di certo e determinato, irreale ma socialmente utile. Le società impongono all’io degli individui una grottesca mancanza di senso e di significato: per vivere vi dovete punire del fatto di essere vivi, ci dicono fin da bambini, e dovete lavorare senza motivo, e farvi del male insensato; per vivere dovete morire. La società, questo danno inflitto al mondo, alla vita, alla realtà tutta, all’uomo, è l’istituzionalizzazione della morte. Le donne e gli uomini ormai vivono soltanto una vita morta.
Musil guardò il manoscritto. Migliaia di fogli, disordinati, sporchi di caffè, di cenere di sigaretta.
Viviamo in un vaneggiamento ineffabile e sublime, pensò. Contro un delirio non si può fare nulla. È inutile cercare di negare un delirio strutturato: diventano furiosi. Solo il sapere può negare un delirio, ma a nessuno interessa il sapere. Le persone non sanno nemmeno di non sapere. Presumono, anzi, che la serie di nozioni e opinioni conculcate in loro abbiano una qualche relazione con la realtà. Questa presunzione è il loro delirio. L’uomo medio, dal buon proletario al luminare titolato, dal piccolo rivenditore di polli al capo di Stato, soffre questo delirio in maniera incurabile.
Presumono di sapere. Presumono di vedere. Presumono di sentire e provare. Presumono di vivere. Chi presume evidentemente non sa, si disse Musil, e, se tutti presumono, è perché la pratica del sapere è uscita fuori dall’orbita delle attività umane, e, con essa, quella della cultura. E così, infine, la civiltà è stata sostituita da un surrogato, la società. Una società si fonda sulla convinzione incredibile di potersi reggere tautologicamente su se stessa. Non serve nient’altro. Non serve più il sapere, non serve più la cultura, non servono più quella serie di riferimenti all’altro, alla rete di relazioni che creano la realtà, e che nutrono la scienza. Ormai, si disse Musil, la scienza è solo abiezione morale. Agli uomini e alle donne è dato solo presumere che questa allucinazione sia la realtà. Non lo è. Quello che gli uomini e le donne vivono è solo la pena di una condizione che è l’esito esiziale di fedi e credi e opinioni e dogmi in cui non c’è più spazio per il pensiero, per quel procedimento difficile che connette ragione e intelletto. La condizione umana è determinata dall’immaginazione guastata di uomini inadatti alla vita, all’amore, al pensiero, al sapere, alla conoscenza. Cercano di capire la realtà attraverso proposizioni sillogistiche che non hanno aderenza con la realtà. Oppure si affidano a grandi visioni di cui non sanno dire nulla, dal momento che non si riferiscono a nulla. Hanno queste grandi visioni e “da quel momento in poi non ci raccontano più, s’intende, le loro percezioni difficilmente descrivibili, in cui non vi sono né sostantivi né verbi, ma parlano in frasi con oggetto e soggetto, perché credono alla propria anima e a Dio come ai due stipiti di una porta, fra i quali apparirà il Meraviglioso”. Il meraviglioso promesso dalle religioni, dalla filosofia, dalle ideologie e dalla scienza moderna. Ma non si può fare nulla contro questo danno. Arrivati a sessantadue anni, si deve ammettere che abbiamo fallito tutto.
Il problema che abbiamo davanti lo possiamo risolvere solo con una visione diversa, che connetta ragione e intelletto, con un vero accesso al sapere, con una letteratura che abbatta gli inesistenti confini fra poesia, arte, narrazione, pensiero razionale: solo questo può favorire il passaggio a un altro stato (anderer Zustand), quello in cui l’uomo vive immerso nella realtà, nella serie infinita di relazioni create dalla rete invisibile della vita. La nostra civiltà, in fondo, è cominciata con questa coscienza, che era di Eraclito o di Parmenide. La nostra civiltà è opera di quei sapienti greci abbacinati dalla luce chiara del mondo. È opera di quei mistici. La parola è ormai odiosa. La parola mistico è stata sporcata, è stata corrotta, è stata banalizzata. Orami sembra così stupida. Come tutto il resto. Come ogni altra cosa della vita umana, che è stupida, blanda. La vita degli uomini ormai è così, è inconsistente, insignificante, insensata, solo regole e fatti, pensò Musil carezzando le pagine del manoscritto (non lo finirò mai, si disse), regole che rimandano a regole, fatti che si giustificano da sé.
Musil ordinò i fogli. La mia enciclopedia spirituale, pensò, o forse è l’archivio impossibile di tutte le possibilità. E poi pensò che davvero era stato tutto inutile. Uno sforzo insensato, superbo, che mi ha spezzato in due, si disse, e che è stato del tutto inutile. E poi Musil si sentì mancare il fiato, e la luce si fece più forte. Gli fece male il cuore. Poi, però, la luce si sfarinò, e scintillò, e, forse grazie a quello splendore, il cuore smise di fargli male e di tremare. In quella luce, ora così chiara, tutte le cose, ognuna distinta dall’altra, si fecero vicine, e poi furono una sola cosa. E allora Musil si disse: no, non è stato per niente inutile.
Avvelenato dalla nicotina (come annota nel diario), stordito dalle continue crisi nervose, convinto (a torto) di essere misconosciuto, Musil morì d’infarto a sessantadue anni. Al suo funerale parteciparono otto persone. La storia delle infinite possibilità aperta da lui deve ancora cominciare.
Testo di Pier Paolo Di Mino.
Illustrazione di Veronica Leffe.