HERMANN BROCH
Immagino Hermann Broch che guarda le strade di una città americana in perenne costruzione. La città cresce, si espande, si moltiplica, si complica come un tu-
more. Il dio dei lavori stradali, direbbe Bulgakov, possiede oscuramente il cuore dello stalinismo. Broch, però, non conosce Bulgakov, e, mentre coglie il lato spaventosamente distruttivo di quella furia costruttiva non è colpito dal suo aspetto metastatico, ma da un elemento più circoscritto e specifico. La sua mente (è come una macchina che fabbrica connessioni: questo gli è sempre sembrata la sua facoltà di legare le cose fra di loro); l’intero complesso della sua immaginazione si sta muovendo, prima lentamente e, poi: ecco che cominciano i lampi delle intuizioni e i tagli della ragione. La macchina si tende con giocosa violenza. Cerca la coincidenza con la realtà, che è quella trama sottile e tenace di cui parla Eraclito.
Faceva freddo. L’aria era chiara. Il vento cadde all’improvviso, risalì, e chiuse dentro di sé i suoni della strada. Questa macchina mentale, pensò Broch, che è il complesso dell’immaginazione, che è la naturale essenza letteraria della realtà, questa macchina fa male, e, in fondo, il suo lavoro è inutile. Alla fine, come si può davvero rendere visibile l’invisibile?; come si può comunicare una serie di relazioni fra cose che non ci sono se non nella relazione, e che solo per approssimazione, dovendo pur nominarle, forse per ironia, chiamiamo cose, o cose in sé, o enti. Un metafisico cercherà sempre di dimostrare la loro esistenza irrelata, assoluta, così come un nichilista la loro assoluta inesistenza, e questa inerme dialettica fondata su un sentimento blando e sciatto, quel cupio dissolvi evanescente che si propone alle coscienze affaticate dalla cattiva digestione e da una media disposizione alla mollezza e all’inerzia, regge le sorti di questo mondo chiuso dentro una fantasia gnostica: la materia disintegrata nell’ineffabile e astratto materialismo; il materialismo come ente di supporto a una fantasia di benessere sottratta al bene e all’essere; il benessere risolto nella sua misurabilità, e quindi il denaro come unità di misura, il denaro, o l’oro, una qualità scambiata per quantità, e, quindi, il liberatorio illimite simbolico usato come illimitata condanna a morte. Da dove viene questa bizantina soffocante corrusca fantasticheria? I metafisici e i nichilisti, si disse Broch, fanno agire le loro teodicee e prammatiche nell’abito del Kitsch. È possibile dire che i metafisici rappresentano, nell’ambito del Kitsch, la letteratura didascalica e i nichilisti l’arte per l’arte? Forse. È un fatto che metafisici e nichilisti praticano lo stesso armamentario letterario: attenzione alle forme e alle strutture, sia come esibizione della loro presunta autonomia sia come metodo comunicativo, e quindi, da qui, ecco la noia del buon gusto, la pornografia rosa dello stile, del linguaggio, della trama, dei personaggi, degli archetipi; al dunque, praticano la cancellazione progressiva del sapere. La macchina che tende con giocosa violenza cercando la coincidenza con la realtà, invece, è quella letteratura che, in negazione del Kitsch, pratica la difficile arte di giungere alla verità, e quella ancora più difficile che consiste nel tornare indietro per riferirla. È un fallimento. È un’inutile fatica.
A Broch bruciarono gli occhi. Poteva essere il vento che, ora, trasportava la polvere dalla strada, ma alla fine non era il vento o la polvere. Il fastidio era dovuto al fatto che aveva trovato ciò che cercava. Un oggetto, un piccolo oggetto apparentemente isolato, fino a poco prima vuoto, trova infine il suo significato. Questo significato si ritrova ora in tutto ciò che è in relazione con l’oggetto.
Gli edifici che ho davanti agli occhi, si disse, questi palazzi in costruzione, non hanno ornamenti. È questo il punto fondamentale. Un tempo si cominciava a costruire partendo proprio dall’ornamento.
Broch pensò a Le Corbusier. Pensò a Le Corbusier e a Mussolini. Si sono corteggiati a lungo, pensò. Due paternalisti. È una corriva conseguenza del progressivo stravolgimento dei significati che accusino me di essere paternalista. Mussolini e Le Corbusier sono paternalisti, due padri che vogliono insegnare ai figli a vivere una vita sana stando alla corretta funzione delle cose. Ma nulla ha, o è, una funzione, se non simbolica. Soprattutto una casa. Se proprio dovessimo immaginare una funzione concreta per una casa, ripararsi dal freddo o dal caldo, nessuna casa assolverebbe nel modo migliore a questa funzione: sarebbe meglio scegliersi un luogo riparato ma aperto in una zona temperata del mondo. Nulla ha una funzione, perché nulla è necessario. Nessuno ti obbliga a vivere. Se vuoi vivere, però, allora devi accettare la necessità come simbolo, e applicarti a un certo numero di funzioni simboliche: come abitare una casa, mangiare la carne, fare l’amore e lottare per questo. Una casa si costruisce a partire dall’ornamento, perché nell’ornamento si apre il meccanismo simbolico che permette alla costruzione di avere una funzione. Una volta perso l’ornamento, si perde la capacità costruttiva. E, persa questa, ci diamo, inevitabilmente, in pasto alla distruzione.
Broch chiuse gli occhi. Il vento, o la polvere, qualcosa gli stava corrodendo le iridi. Non esiste nessuna funzione, pensò. Non esiste la trama, l’intreccio, i personaggi, lo stile, la lingua: esiste solo la verità. E il sapere, che è il giuramento che facciamo all’anima, quello di salvarla dalla sua malattia progressiva, dalla sua progressiva paralisi e morte. La macchina delle connessioni, questa letteratura a cui ambisco, e a cui non so dare un nome perché forse è la letteratura punto e basta, è tensione verso l’anima, che è metamorfosi continua. E la macchina delle connessioni è la lingua dell’anima, la lingua, che, seguendo le modulazioni ondose e incerte, onniavvolgenti, delle cose vuote che fanno la realtà, s’esprime nelle parole che parlano dentro ogni cosa, dentro ognuno di noi.
Abbiamo sempre immaginato l’anima, pensò poi, questo continuo perenne mutare, questa metamorfosi senza tregua che atterrisce e solleva, come una donna. La Verità è la donna che guida Parmenide, l’Afrodite di Empedocle, la Beatrice di Dante. Ma l’uomo comune, l’uomo educato al Kitsch, schiavo dell’estasi della banalità, della normalità, ha rivoltato questa dea contro se stessa. L’abbiamo costretta a essere una funzione produttiva, e quindi la protagonista di una tragedia (è questo ciò che voleva dire Aristofane): l’abbiamo costretta alla paralisi e infine alla morte. Questo è l’io: una dea uccisa. E allora la letteratura di cui parlo è un atto di fedeltà alla dea. Ci mettiamo in silenzio a sentire le sue storie, che cambiano sempre affinché tutto permanga perenne, per poi riferirle. Le storie che ci racconta la dea allontanano la morte senza sospenderla, proprio perché non la sospendono: la pongono alla loro origine. Le storie sottraggono al circolo vizioso, alla monociclosi esistenziale, alla coazione a ripetere perché sono la ripetizione stessa. Ripetono quel cerchio che è la tonda verità. Le storie che ci racconta la dea ci immergono ancora di più nella colpa, ma ci liberano dalla condanna. Procedono in avanti, si riavvolgono indietro, si diramano e contraggono, il loro movimento posidonico obbliga la voce del narratore a farsi ondosa, e a cancellare confini e a ergerli, ergerli e cancellarli, perennemente, cercando di aggirare il dolore, graffiandosi di spine, profondamente. Queste sono le storie che racconta la dea. Non le storie che facciamo al bar, quelle che servono a constatare il vano fluire del divenire o, ed è la stessa cosa, a isolare una presunta essenza per salvarla dalla consunzione del divenire. Parlo del sapere, che viene dall’altro, ed è praticato per l’altro, ma di cui ognuno deve avere vissutezza nel momento solitario e sospeso in cui siamo davanti alla dea, o alla verità: in cui siamo nell’anima. Il cuore non trema, in quel momento, e tutto è meravigliosamente fermo. “Poiché solo chi riposa può indicare il cammino, solo ciò che è unico e inconfondibile, strappato e salvato dal flusso delle cose, si apre all’infinito”. In quel momento immobile, mentre noi siamo immobili in lui, conosciamo “ciò che si fa durata fuori dal tempo, si fa canto che mostra il cammino, si fa guida”. È come una folgore, “un unico istante di vita, dilatato sino a comprendere il tutto, un cerchio dischiuso all’infinito”.
Broch aprì gli occhi. Davanti a lui si alzavano due torri sottili e altissime che non avevano altro senso che essere due torri sottili e altissime, e quindi pensò alla dissoluzione del genere umano.
Testo di Pier Paolo Di Mino.
Illustrazione di Veronica Leffe.