GESTI #3 - LA DEA FORTUNA (PRIMA TAPPA) - SANTUARIO DI PALESTRINA, 28 APRILE 2019
Giriamo a caso seguendo l’intreccio di strade, spinti da ciò che ci lasciamo dietro. A caso, ovvero secondo ciò che cade, che accade. Lasciando che cadano le sortes: affidandoci alla fortuna, a qualunque cosa, buona o cattiva che sia, Lei ci metterà davanti.
Inevitabilmente, seguendo la fortuna, troviamo la Fortuna. Qui a Palestrina era dedicato un santuario a suo nome. Faremo in modo che lo sia ancora. Ovviamente, è un atto d’amore, quello che la dea dava, specialmente al popolo, e che il popolo volentieri le restituiva. A Roma rappresentavano la Fortuna come una bella prostituta che sorrideva da una finestra. Benediceva con la sua passione erotica i re buoni, quelli che prestavano servizio migliore al popolo. La storia della rimozione di questa figura è lunga, lentissima, e passa per il tentativo, piuttosto riuscito, da parte delle classi dirigenti dell’impero e poi da parte delle migliori intelligenze cristiane, di censurare nell’uomo la presenza di questa forza travolgente e orribile e meravigliosa per la quale l’essere trova la sua stabilità nell’instabilità del divenire; e per la quale il mondo può proseguire. La Fortuna godrà di nuova considerazione solo nel Rinascimento, oggetto di una sovrapposizione con Venere, ipostasi della casta voluttà, o della Shekinah cabalistica, ma nel contempo, oggetto di un avido interessamento da parte della sempre più forte borghesia finanziaria dell’epoca. La Fortuna, dunque, con Machiavelli, sarà, sì, di nuovo pensata come una donna, ma affinché “come donna vada battuta”. I riti dovrebbero valere a rendere inefficaci gli automatismi criminali instaurati da certe fantasticherie lasciate alla non riflessione.
Qui a Palestrina la Fortuna era rappresentata nella sua unità da due figure normalmente concepite come differenti e opposte: una materna e un’altra giovanile e guerriera: era rappresentata, dunque, come quell’intelligenza capace di raccordare a se stessa, in un salto divinizzante nella piena umanità, l’anima affidata, solitamente in modo negletto, a quella parzialità unilaterale del quotidiano, secondo la quale una cosa è “a” o è “b”, e un terzo non si dà. Questa storia è anche al centro de “Lo splendore”. Da dove nasce la fede selvaggia in questa parziale unilateralità, che solo ciecamente possiamo considerare una categoria mentale, e non una forma di nevrosi? Da una favola: questa parzialità unilaterale, in effetti, nasce da una favola che vede per protagonisti due inconciliabili avversari, spesso due fratelli, spinti all’affermazione del bene assoluto contro il male, ovvero di se stessi contro l’altro. Il motivo del loro conflitto può essere qualsiasi cosa: può andare da una donna a Dio. Questa storia è raccontata in tutte le parti del mondo. Dalle nostre parti è conosciuta nella versione di Caino e Abele, o di Prometeo ed Epimeteo, in entrambi i casi nomi parlanti che valgono per “il furbo e l’idiota”: a loro si contrappone la figura di Set, nel prima caso, e di Ermes, nel secondo. Fra due litiganti, si sa, è sempre il terzo a vincere, e, quindi, fra l’idiota e il furbo, che sempre un’idiota è, vince l’intelligente. Sempre dalle nostre parti, poi, questa storia viene raccontata, con minore ferocia e senza ombra di scherno come la storia di Teseo, una sorta di piccolo Apollo, il Minotauro ovvero Dioniso, e Arianna; oppure viene raccontata come la storia di Set, Osiride e Iside. In quest’ultima versione l’intelligenza è rappresentata dalla figura femminile che mette in uno stato di conflitto assoluto gli elementi umani troppo umani di cui soffrono i personaggi maschili, per unirli ovvero divinizzarli nella loro piena umanità: i piccoli commerci della fantasticheria finalizzati a svoltare la giornata, a scampare dalla vita, diventano grandi movimenti interiori ed esteriori e, infine, coincidono con il largo movimento circolare ed enantiodromico della realtà.
A Palestrina, in epoca più tarda, la dea Fortuna sarà sentita come Iside: la dea che unisce ciò che il caso offre per restituirlo a un’ontologia maggiore. Compiamo il rito. Poi, volgiamo lo sguardo verso l’orizzonte. Un tempo un faro, posto in alto sopra il tempio, brillava visibile fino al mare. Cerchiamo con gli occhi il mare e disegniamo nella mente la linea che ci unisce a lui. Seguiamo Iside.
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